Vaso di Pandora

Il silenzio che ci riguarda tutti

C’è un rumore sordo che attraversa il nostro tempo.
Non si sente nei telegiornali, non riempie le piazze, ma abita le stanze, le scuole, i luoghi di lavoro, le case.
È il rumore della sofferenza mentale, che cresce, si espande, si mimetizza nella vita quotidiana.
Un rumore che ormai non è più solo dei “pazienti”, ma dell’intera società.

La salute mentale è diventata il termometro più sincero del mondo che abitiamo.
Ci racconta le nostre paure, la solitudine, l’incertezza del futuro, la fatica di stare al passo con un sistema che pretende efficienza anche quando l’anima non regge più.

I dati lo confermano, ma non servono numeri per capirlo.
Basta guardarsi intorno.
Secondo l’OMS, quasi una persona su due in Europa non riceve l’aiuto di cui avrebbe bisogno.
Mancano professionisti, risorse, tempo.

Ma manca soprattutto spazio: quello interiore, quello umano, quello politico.
Viviamo in una società che misura tutto, la produttività, la velocità, la performance e dimentica di misurare ciò che ci rende vivi: la capacità di sentire, di fermarci, di ascoltarci, di chiedere aiuto.

Il linguaggio, anche lui, ci tradisce.
Uno studio recente mostra che la parola “malattia mentale” è ancora la più usata.
È la traccia di una cultura che continua a leggere la sofferenza come deviazione, non come messaggio.
Eppure, le parole contano: decidono se una persona sarà accolta o isolata, se la fragilità diventerà colpa o occasione di incontro.

Siamo un Paese che, quasi cinquant’anni fa, ha avuto il coraggio di chiudere i manicomi.
Lo fece nel nome della libertà e della dignità, perché come scriveva Basaglia“la libertà è terapeutica”.
Oggi quella libertà va difesa da nuove forme di esclusione, meno visibili ma altrettanto potenti:
la solitudine digitale, la precarietà, la marginalità silenziosa di chi non trova un posto nel ritmo feroce della produttività.

Il disagio dei giovani ne è il segnale più chiaro.
Ragazze e ragazzi che si affacciano alla vita sentendo già di non farcela, schiacciati da un’idea di successo che non contempla la fragilità.
In Italia, l’indice di salute mentale tra i 14 e i 19 anni continua a peggiorare, con le ragazze più colpite.
Non sono numeri: sono nomi, volti, respiri trattenuti, vite sospese.
È una generazione che chiede di essere vista, non curata in fretta.

Ma non è solo questione di salute mentale.
È una questione politica.

È una questione culturale.
Perché il modo in cui una società tratta la sofferenza dice tutto di ciò che è.
E oggi il rischio è quello di una nuova disuguaglianza: tra chi può permettersi la cura e chi no; tra chi viene ascoltato e chi viene sedato; tra chi cade e trova una mano, e chi cade e viene dimenticato.

La salute mentale non è un settore della sanità.
È una lente sul presente, un indice di civiltà, l’espressione attenta del lato umano.
È lo specchio di come guardiamo l’altro e, in fondo, di come riusciamo a guardarci dentro.
Riguarda il modo in cui viviamo il tempo, la fatica, la relazione.
Riguarda la scuola che non sa più educare al limite, il lavoro che non conosce tregua, la politica che dimentica l’anima, la comunità che si sfalda nell’indifferenza.

Oggi, 10 ottobre, non servono slogan.
Serve una presa di coscienza.
Serve dire ad alta voce che la salute mentale non è un lusso, ma un diritto.
Che la cura non è solo farmaco o diagnosi, ma relazione, ascolto, presenza.
Che non basta sopravvivere: abbiamo il dovere di costruire un mondo in cui sia possibile stare bene.

Perché se davvero la libertà è terapeutica, allora la cura, quella vera, comincia nel momento in cui scegliamo di non voltare più lo sguardo.

E scegliamo di essere, di esserci.

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