Vaso di Pandora

Si può morire per curare? L’agonia della medicina generale

La morte della dottoressa Carta avrà senz’altro colpito molti di noi. Secondo quanto si legge nelle varie testate giornalistiche, avrebbe trascurato i suoi sintomi per giorni, fino all’epilogo infausto per arresto cardiaco. A 37 anni. Nell’esercizio della professione di medico di medicina generale a Dorgali, in provincia di Nuoro. Curava una comunità di 1.800 pazienti, i suoi, e un totale di 5.000 utenti a causa dell’assenza per malattia di due altri medici di famiglia.

Le righe di Quotidiano Sanità del 26 Settembre denunciano la situazione di precarietà della medicina generale, una lenta agonia a genesi multifattoriale. Il cambiamento dell’utenza (i pazienti esperti in medicina da cui difendersi), i ritmi di lavoro serrati e una burocratizzazione crescente non lasciano spazio per curare. E per curarsi. Ma se il medico non cura se stesso, chi curerà i pazienti esperti?

Il paziente esperto

La dizione di “paziente esperto” non è qui usata nell’accezione di consapevolezza delle cure e del percorso diagnostico, quanto invece come una posizione di aggressività del paziente. Spesso sfiduciato nelle figure di riferimento, il malato si informa nella rete e nei social per ricercare le diverse patologie e/o opzioni terapeutiche e interrogare il medico per un confronto che si rivela il più delle volte controproducente. Il braccio di ferro che ne deriva è sfiancante per il curante e dannoso per il paziente.

In ogni caso, la storia di Maddalena Carta ci spinge a indagare il concetto di responsabilità. La trattazione sarebbe molto ampia, ma può essere utile partire dall’etimologia, che conduce al latino e al verbo rispondere. Essa allude dunque alla comunicazione, a una risposta, diremo, alla richiesta di aiuto. La chiamata a rispondere al paziente. Al termine responsabilità siamo invece abituati ad associare quello di imputabilità, la minaccia, ovvero le ripercussioni morali, e sempre più spesso legali, degli atti medici.

“Le parole che salvano” di Eugenio Borgna

Nella sua dissertazione sulla responsabilità, contenuta nel libro “Le parole che salvano”, Eugenio Borgna parte dalle premesse filosofiche, in cui si fa riferimento a “un’azione compiuta volontariamente e in piena coscienza“. Ne esplora dunque le risonanze emotive e relazionali: “ne sentiamo la responsabilità nello scorrere senza fine delle giornate nelle quali siamo chiamati ad ascoltare gli altri…” Ma introduce un diverso modo di essere responsabili: “Questo ora vorrei dire: conoscere se stessi e conoscere gli altri è un diverso modo di essere responsabili”. È impossibile avvicinarsi agli altri senza considerare se stessi; riconoscere le nostre emozioni è essenziale per stare con l’altro. Prendersi cura dell’anima del curante.

E il corpo? Nel burn-out, che si può definire una malattia del troppo lavoro, il sistema psiche-soma va in tilt. Winnicott spiega come l’integrazione mente-corpo, di per sé soggetta a precarietà, sia un processo fondamentale per la salute. In condizioni di malattia, egli afferma che “il fissarsi della psiche nel corpo si allenta” e, inoltre, “la psiche viene a patti con il corpo, di modo che alla fine, in condizioni di salute, si stabilisce una situazione in cui i confini del corpo sono anche i confini della psiche”.

E a proposito di confini, la storia di Maddalena Carta ci ricorda che esiste un corpo, anche per il medico. Un corpo che, nella malattia del curare, viene quasi dimenticato, scisso dalla psiche. No, non si può e non si deve morire per curare. 

Le condizioni di lavoro del medico di medicina generale

Pur giudicando inaccettabili le condizioni di lavoro in cui versa il medico di medicina generale, Silvestro Scotti, segretario della Fimmg (Federazione Italiana Medici di Medicina Generale), ha dichiarato che “fino all’ultimo istante Maddalena ha incarnato lo spirito più autentico della professione: cura instancabile e vicinanza quotidiana ai bisogni della comunità”. Doverosamente verrà assegnato alla dottoressa scomparsa il Premio Mario Boni, riconoscimento conferito “a medici distintisi per merito, coraggio, abnegazione e sacrificio nello svolgere la propria attività”. E ancora Filippo Anelli, Presidente di Fnomceo: “a Maddalena va la nostra riconoscenza per aver incarnato oltre ogni limite i principi del Codice deontologico”.

Proprio in quell’”oltre ogni limite” risiede anche la responsabilità della cura. Non dimenticarsi del corpo, ovvero di se stessi, può essere il punto di ripartenza della salute privata e pubblica. Curare i curanti, insegnare ai medici come prendersi cura di se stessi e metterli nelle condizioni di farlo. Per non consegnare l’ennesimo premio alla memoria. Certamente ha un valore inestimabile la denuncia di una situazione sanitaria fuori controllo, ma ancor di più è necessaria la riflessione profonda seguita dalla responsabilità (a proposito!) delle Istituzioni a riguardo di quella morte e di tante altre silenziose agonie che si realizzano negli ambulatori e nelle vite dei curanti.

Il sacrificio della dottoressa Carta è un grido di allarme rispetto alla realtà di un sistema di medicina generale al collasso. Ma stiamo attenti ad elogiare oltremodo l’abnegazione professionale, poiché questo potrebbe mettere in secondo piano le responsabilità. Quelle del singolo che si traducono nella necessità di riconoscere i propri limiti, e quelle istituzionali, affinché i premi postumi si traducano in azioni concrete e volte  a dare risposte di salute, non a celebrare le perdite subite.

Note Bibliografiche
2

Borgna, Eugenio, Le parole che ci salvano: Einaudi, 2017

3

Winnicott, Donald W. Sulla natura umana. A cura di Renata De Benedetti Gaddini. Traduzione di Tullia Roghi. Milano: Raffaello Cortina Editore, 1989.

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