Vaso di Pandora

Federico Faggin raccontato da Paolo Rossi. Riflessioni su filosofia e scienza

Intervista a cura di: Giovanni Giusto

Giusto: Paolo, come sei venuto in contatto con Federico Faggin, autore particolare in quanto non solo scrittore ma anche fisico, imprenditore, che ha in parte contribuito allo sviluppo di quella che viene definita impropriamente “intelligenza artificiale”?

Rossi: Federico Faggin è stato l’inventore del primo microprocessore, nonché il fondatore di quella che sarebbe diventata poi la Silicon Valley, dove aveva preso casa quando ancora era un sobborgo di Los Angeles scarsamente abitato ed edificato.

Ho conosciuto Faggin in un periodo della mia vita in cui mi stavo interessando di tutta una serie di letture mosse da una mia personale insoddisfazione rispetto al mondo psichiatrico e al mondo scientifico, in generale, che non mi sembrava dare risposte sufficientemente esaustive rispetto alle domande che si potevano porre.

E quindi, in un periodo in cui stavo rileggendo un autore molto interessante che cercava di mettere a punto una connotazione diversa della teoria Darwiniana e allo stesso tempo alcuni testi filosofici che affrontavano il tema, oggi molto in voga, del significato della coscienza, mi sono imbattuto nel primo libro di Federico Faggin, regalato da mia moglie, che si intitola: “Silicio. Dall’invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza” nel quale Faggin, attraverso un excursus biografico, racconta la sua vicenda e con una narrativa estremamente tecnica sul significato del microprocessore arriva alla conclusione che secondo lui non esiste la possibilità di trasformare quello che a livello più elementare è un segnale elettrico in una percezione di coscienza.

Un anno dopo, è uscito il suo secondo libro “Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura”, che secondo me è un testo che dà delle risposte ai quesiti posti nel suo primo lavoro, dove Faggin, attraverso una costruzione teorica molto dettagliata e con il mantenimento del rispetto dei criteri scientifici, si avventura in un’ipotesi di spiegazione, anche se non può essere completamente convincente, perché si basa su questioni soggettive e non oggettive. Questo libro è davvero molto interessante soprattutto per i quesiti che una persona si può porre in conseguenza della lettura.

Stiamo attraversando un momento in cui ci rendiamo conto che nella medicina, ma soprattutto in psichiatria, non abbiamo dati quantitativi ma dati qualitativi e tutto ciò ci mette in una situazione diversa rispetto agli altri scienziati o anche agli altri medici; per esempio, se ho una determinata patologia cardiaca e vado da un cardiologo, mi fa un ecocardio, misura il volume e le aree cardiache, la frazione di eiezione o la perfusione coronarica; ci sono, quindi, dei parametri oggettivi che poi portano ad una diagnosi e una terapia.

In psichiatria gli unici dati quantitativi sono le scale di valutazione che hanno però un ruolo soltanto confermativo e non meramente diagnostico e l’osservazione di dati qualitativi, che nel suo saggio Faggin chiama “Qualia”, descritti in filosofia.

Trattandosi, quindi, di una materia in cui non abbiamo obiettivamente dati quantitativi, ci domandiamo che tipi di interventi possono essere utili? Mi riferisco a un metodo classico scientifico che non ci ha portato a grossi risultati, ormai da circa trent’anni. Da quando mi sono specializzato (sono trascorsi più di vent’anni), epoca in cui avevamo a disposizione il Risperidone, ad oggi c’è il Paliperidone, che è una modificazione lievissima della molecola di quel farmaco ma poi non abbiamo molto altro. Gli informatori farmaceutici, oggi ci parlano dell’Esketamina, dell’LSD ovvero dell’acido lisergico in tutte le sue funzioni, o ancora della Psilocibina come potenziali futuri farmaci; stiamo ricorrendo ormai alle sostanze che negli anni ‘70 avevano una larga diffusione come sostanze di abuso o della generazione new age. Quindi c’è carenza di ricerca ed è proprio difficile, se non impossibile, arrivare ad una comprensione veramente scientifica di quanto avviene a livello della coscienza soprattutto per quanto riguarda i nostri pazienti psichiatrici.

Federico Faggin espone la sua teoria attraverso un metodo scientificamente orientato: fatto da un’esperienza soggettiva, una sorta di “percezione di sentimento diffuso in cui lui si è sentito in contatto con l’universo”, come lui l’ha definita. Faggin si è sentito essere l’universo e colui che osservava se stesso che rappresentava l’universo. Con molta umiltà, riconosce che questo è un dato che difficilmente può essere condiviso perché si tratta di un dato del tutto soggettivo che gli ha dato l’occasione di porsi delle domande sul significato della coscienza. La soluzione proposta da Faggin, la trovo davvero molto interessante perché lui si contrappone al movimento filosofico del dualismo, che separa mente e corpo, sostenendo che la mente è sostanza diversa dalla materia, invece, si inserisce in un filone filosofico, peraltro non nuovo che oggi è tornato di nuovo in auge: il panpsichismo, con delle precisazioni che lui ha applicato in base alla sua teoria e che ritengo davvero molto interessanti.

In questo periodo sto leggendo parallelamente un testo di Carlo Rovelli: fisico-teorico che ha avuto successo all’estero, ha lavorato in Italia e negli Stati Uniti e attualmente insegna in Francia all’Università di Aix-Marseille. Divulgatore e scrittore per Adelphi, ha pubblicato diversi libri, io ne sto leggendo alcuni. La sua è una posizione che parte da presupposti simili a quelli di Faggin ma poi arriva a delle conclusioni diverse. Rovelli, per esempio, contesta il panpsichismo di Faggin che suddivide la realtà attraverso funzioni elementari dotate di coscienza, una coscienza primordiale e quindi noi, o meglio, la nostra coscienza umana è il frutto di quelle che definisce “seity”.

Rovelli è più legato ad un’interpretazione della realtà e dell’universo, attraverso un approccio relazionale: un’interazione relazionale in cui noi siamo come immagini in specchi infiniti per cui tutto ciò che è solido si scioglie in un “velo”, come lo chiama Rovelli, oltre il quale non c’è niente. Quindi Rovelli rimane ancorato ad un ateismo sereno che non prevede la sussistenza di una coscienza inesplorabile, come invece sostiene esserci Faggin. Questo è un elemento interessante che ritengo si ripercuota anche sul nostro lavoro di psichiatra: ritorna in auge l’elemento relazionale e quindi l’aspetto psicodinamico a fronte di un aspetto organicistico che secondo il mio modesto parere da trent’anni si sta sforzando di reintrodurre la psichiatria nell’ambito della biologia e della scienza tout court ma mi pare con risultati modesti. Invece, questo apre delle prospettive che possono essere interessanti per il nostro lavoro.

Giusto: A questo proposito non ti pare singolare che due fisici, anche abbastanza famosi, si incontrino con la filosofia

Rossi: Mi sembra inevitabile!

Giusto: Secondo te come mai questo succede?  Faggin ha scritto all’età di 81 anni, Rovelli a 65 anni; le riflessioni di questi due fisici, hanno a che vedere con l’imprescindibile umanità di ciascuno di noi; il punto non è essere scienziati, ma essere prima di tutto uomini che utilizzano la loro intelligenza per migliorare la qualità di vita attraverso imprese storiche come quella di Faggin, che poi si è sviluppato proponendo situazioni, anche tecnologiche, che forse possono aiutare la psichiatria

Rossi: Certo è il tema, poi, dell’intelligenza artificiale.

Giusto: Definire intelligenza artificiale, credo non sia propriamente corretto.  L’intelligenza artificiale è una raffinata tecnologia messa a disposizione dell’intelligenza umana ma che non può prescindere da quest’ultima. Come già detto, non si può scindere la mente dal corpo, come non si può sostenere che siamo “tutta biologia o tutta psicologia”. Qualche giorno fa è morto il professor Romolo Rossi, psicoanalista di grande capacità, che non trascurava la riflessione sulla biochimica del corpo.

Rossi: La teoria dei quanti, in fisica, sviluppatasi nel ’900 ha portato a scalfire quelle inossidabili convinzioni del ‘700 a partire da Newton e forse anche prima da Galileo legate alla scienza deterministica per cui un fatto si può sempre far risalire a qualcosa. Credo che la psichiatria, come peraltro diceva anche Benedetto Saraceno, commentato da Norberto Miletto nell’articolo de “Il Vaso di Pandora”, un passo indietro lo debba fare per acquisire più slancio, piuttosto che ritirarsi.

Giusto: Certo, deve fare un passo indietro ma deve anche adeguarsi ad una realtà mutata che comprenda la filosofia abbinata alla tecnologia. Mi è piaciuto molto leggere Federico Faggin per lo sforzo che fa in tarda età e un dato da non dimenticare è l’inizio della sua carriera professionale all’Olivetti.

Rossi: Faggin aveva lavorato all’Olivetti ancora da perito, si è laureato successivamente.

Giusto: L’Olivetti è stata un’esperienza comunitaria: la fabbrica come comunità che favorisce il pensiero collettivo intorno ad un’idea sicuramente geniale mossa anche da interessi economici pensata e realizzata dall’Ing. Andriano Olivetti. Questi sono gli uomini che fanno la differenza, sono coloro che garantiscono la sopravvivenza della specie e il progresso di un pensiero che la psichiatria, per quello che ha dimostrato, non riesce ad assecondare per niente. Questo è il motivo, per cui tu Paolo, hai iniziato a cercare spiegazioni altrove… e hai fatto bene!

Rossi: Gli approcci, sia quello di Faggin che quello di Rovelli, pongono l’accento su un tema che secondo me è fondamentale: non tanto la brama di trovare delle risposte ma più che altro il desiderio di porsi le giuste domande che secondo me è un po’ l’elemento che accomuna questi due autori anche se poi arrivano a conclusioni differenti. Rovelli fa riferimento ad un testo indiano filosofico del II millennio a.C., in cui però vengono già poste alcune questioni. Faggin, dal canto suo, è pieno di citazioni in ambito letterario antico, come se ci fosse bisogno di un recupero di conoscenze che oggi sembrano superate ma che un tempo, per quel tempo, secondo me erano straordinarie. Il progresso della conoscenza ha portato a un’evoluzione straordinaria della civiltà. Mi domando se ci siamo persi qualcosa per strada…

Giusto: E arriviamo al punto dell’intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale non può produrre pensiero, invece l’umanità sì. Questa è la differenza fondamentale sul quale dobbiamo costruire un nuovo modo di intendere anche il nostro lavoro di psichiatri di comunità. Questi autori dovrebbero essere letti e conosciuti da tutti. Attraverso Il vaso di Pandora, è necessario fare un’opera di divulgazione.

Rossi: C’è anche un testo molto interessante che io consiglio vivamente “L’evoluzione costruttiva” che non riguarda la psichiatria ma è il testo di un biologo italiano genovese, direttore dell’Istituto di biologia dell’Università di Genova, deceduto nel 2002, all’età circa di ottant’anni: Michele Sarà. Questo scritto riprende il tema dell’evoluzione darwiniana ma con degli accorgimenti davvero molto convincenti. Io parto dal presupposto che rappresento uno stereotipo classico: nasco in Italia, nella parte occidentale evoluta del mondo, ho un’educazione che prende le radici dall’Illuminismo, quindi dal metodo scientifico, ho fatto il medico, ho sempre creduto nella veridicità della scienza. Quando ero ragazzino e studiavo alle scuole superiori biologia, avevo una professoressa molto razionale che contrapponeva la storia dell’evoluzione di Darwin con la storia dell’evoluzione per esempio di Lamarck. Le giraffe secondo Lamarck hanno alzato il collo perché così potevano nutrirsi meglio; secondo Darwin, invece, è stata una selezione della specie che ha prodotto le giraffe con il collo alto. Le due teorie non sono incompatibili.

Michele Sarà, come gli autori precedenti che ho citato, riprendono argomenti che non sono appartenenti a una cultura diversa dalla nostra occidentale, orientale o facenti parte di correnti new age, sono proprio argomenti oggetti di studio di scienziati, biologi, fisici anche filosofi della scienza; persone che hanno quindi un background culturale sicuramente molto più vasto ma simile al mio, al nostro, di chi vive alle nostre latitudini, però pongono delle domande molto interessanti e alle quali, ad oggi, non riusciamo a pervenire attraverso il metodo scientifico.

Questo fatto mi appassiona perché nella mia professione ho sempre dovuto cercare altro, la relazione prima della scoperta dei neuroni a specchio di Rizzolatti, era proprio nella nostra idea, di quella di Freud della psicanalisi, poi hanno trovato i neuroni a specchio che in qualche modo hanno confermano l’esistenza dell’empatia.

Oggigiorno quasi tutti gli scienziati che vivono nella Silicon Valley hanno un atteggiamento rispetto alla tecnologia molto cauto: ritengo che l’intelligenza artificiale sia un’eccellente applicazione ma non può dare spiegazioni. Mi spiego meglio: la macchina potrà fare delle cose che noi non siamo in grado di fare ma, e cito il professor Romolo Rossi, “non si può spiegare a un cieco che cos’è il rosso se non l’ha mai vissuto”; Romoli Rossi sosteneva che il suo alunno ideale è stato un allievo che a un esame, dinnanzi alla domanda: “che cos’è l’ansia” anziché rispondere in base al manuale, che peraltro aveva scritto Rossi stesso, rispose: “Professore se l’ansia non l’ha mai provata è inutile che io stia qua a provare a spiegargliela”.

Questo secondo me è il nesso che poi collega il tutto: ritengo che l’intelligenza artificiale sia un’ottima opportunità ma che non possa essere destinata ad una riduzione della coscienza. Ha anche dei tratti di pericolo che non vanno valutati perché non può soppiantare, come viene mostrato in certi film distopici, il genere umano. Sono altresì convinto che ci siano degli elementi da prendere in considerazione, come ad esempio oggi si fa in molti studi. Ieri sera parlavo con una collega, psicologa di Milano, che si occupa di EMDR, una tecnica psicologica centrata sul trauma, e mi poneva il problema dell’enorme richiesta di prestazioni soprattutto nei giovanissimi che lei collega ad un utilizzo delle apparecchiature digitali, in particolare il cellulare come causa slatentizzante. 

In effetti ho fatto questa riflessione: il cellulare ha cambiato la vita, ha permesso a persone che fanno il nostro lavoro di poter rispondere al telefono mentre andiamo a sciare. Mi ricordo che quando mio padre era reperibile, era “inchiodato” a casa con il telefono fisso oppure, se andava al ristorante, doveva lasciare il numero del locale.

Giusto: Io ero pieno di gettoni per rispondere al cicalino che suonava incessantemente e mi creava un’ansia infinita. Il cellulare ha migliorato la vita perché siamo molto più connessi ma è altresì importante conoscere gli strumenti che abbiamo a disposizione.

Rossi: Ho fatto questo paragone: anche la macchina, che ha sostituito il cavallo, ha migliorato la vita, ci ha permesso di viaggiare, di conoscere il mondo, di ridurre lo spazio del mondo e anche i tempi del mondo, però la macchina si guida a diciott’anni con delle regole ben precise per cui se non la usi bene paghi delle conseguenze, il cellulare no. E’ uno strumento adulto, fatto per adulti, con all’interno una tecnologia da utilizzare con consapevolezza e cautela, come l’automobile. Ma senza gli stessi strumenti di attenuazione del rischio.

Giusto: Questo ci riporta la necessità dell’educazione che noi psichiatri trascuriamo molto spesso. La psichiatria è vittima di se stessa e di due elementi: l’autoreferenzialità e l’ottusità nel continuare a far riferimento a un mondo che evolve senza sviluppare quella curiosità che è l’indispensabile motore del nostro lavoro e che ci consente di non esere anacronistici. Quindi, il problema per noi psichiatri di comunità è quello di apertura (un po’ come avviene negli scacchi); la psichiatria spesso tende a chiudersi e ritorcersi su se stessa; è un crocevia di scienze umane e di scienze naturali. Questo è anche il fascino del libro di Faggin: tratta di questo, del crocevia tra scienze naturali e scienze umane e quindi per le persone come noi, che sono alla ricerca del nuovo e si proiettano in una dimensione futuribile, è un grosso insegnamento in un momento in cui lui vecchio riflette sulla sua storia. Non a caso Faggin ha scritto questo libro a ottantun anni, ad esempio Picasso vedi come cambia spesso accade se ammiri l’opera di un pittore: vedi come cambia la sua espressività nel tempo (ora giovane, poi adulto e infine anziano).

Grazie Paolo per questa intervista intelligente, completa e condivisibile!

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