Vaso di Pandora

La storia di Antonio, un senza dimora con profondi traumi

Antonio è un bel ragazzo di 27 anni che da almeno un anno vive su una panchina del parco della Caffarella a Roma sud, Appio Latino. Carla Finn, una guardiaparco alla Caffarella, ha incontrato il senza dimora.

In quel parco di senza dimora (SD) ce ne sono diversi e un guardiaparco dovrebbe mandarli via proprio per la cura e il decoro del parco, ma evidentemente il decoro e la cura di un parco possono avere altre, diverse, declinazioni. Carla ha rintracciato una sorella che vive a Milano e ha saputo che a 17 anni è stato mandato in Italia per fuggire a concreti rischi di morte di cui era oggetto da parte di alcune bande violente del Salvador.

Il passato violento di Antonio

Difficile immaginarlo violento quando lo vedi ora, impaurito e preso dal freddo su una panchina del parco immerso fra indumenti sdruciti e buste di plastica. Però forse in Salvador deve essere stato contattato da gruppi violenti da cui poi è stato difficile uscirne. Lui ne ha mantenuto un’esperienza di grave colpa e, forse per questo, ogni sera va ad una fontana del parco e si lava con l’acqua fredda mantenendo i vestiti e le scarpe che, ovviamente, sono fradici. Ovvio che non si tratta di curare l’igiene, ma di lavare una colpa che va via solo per alcune ore, fino alla sera successiva… (Io penso alle abluzioni del prete  che invocava il lavaggio dei peccati quando da bambino servivo la messa…).

In Italia l’accoglie Karen a Milano, ma lei fa la badante fuori Milano e Antonio è sempre solo. Non lavora e non conosce nessuno. Quando parlo al telefono con lei un po’ capisco che in Italia Antonio già non stava bene. Psichiatri e psicoanalisti sanno che un trauma non lo risolvi mettendo chilometri da ciò che ti ha inciso la serena continuità della vita, ma il trauma si incide nella carne (Van der Kolk, Cortina, 2014) e lo porti con te quando fuggi a Milano da tua sorella.

Non sappiamo cosa sia realmente successo in Salvador. Probabilmente qualcosa di violento Antonio deve averlo commesso davvero. Ma come per Joseph o John, altri SD che abbiamo conosciuto, il  blocco traumatico viene quando una violenta realtà esterna non può essere accolta da quello che senti di essere profondamente.

Leggi anche: “Homeless che cercano casa: Housing First come soluzione alla homelessness

I traumi di un senza dimora

In questi casi, ti sospendi in una terra di nessuno perché non riesci a diventare abbastanza delinquente per rispondere a quello che ti succede. La homelessness è la perfetta soluzione a queste esperienze traumatiche (Raimondi, Riefolo, Ricerca Psicoanalitica, 2023).

La colpa che Antonio ha portato con sé dal Salvador ad un certo punto si fa sentire anche a Milano e lui comincia a sentire che ci sono bande di salvadoregni anche a Milano e quindi dice a Karen che deve partire (fuggire?). Quindi, Genova, Firenze, fino a Roma.

Sarà accolto dai Fratelli di S. Teresa di Calcutta dove rimane per circa un anno, ma nel trauma il primo a congelarsi è il tempo e nessuno di noi può accettare che un giorno, un anno, dieci anni siano la stessa cosa (Joseph, dal Burkina Faso, è rimasto dodici anni nel parco cani del laghetto sotto l’Olimpica ricavandosi una fissa dimora in un cumulo di giornali ben stipati…).

Walter, il  responsabile di una delle case dei Fratelli di Teresa di Calcutta, ad un certo punto gli comunica che non può rimanere sempre da loro e che dovrà tornare a Milano da Karen. Gli comprano il biglietto del treno e lo accompagnano alla stazione, ma lui non partirà mai, perché a Milano la colpa che si porta addosso diventerebbe più acuta e insostenibile dato che anche a Milano, ora, ci sono le bande che vogliono ammazzarlo. Il posto migliore dove sentirsi sicuri è la strada perché la strada, a differenza di quello che noi pensiamo, se hai un trauma, è la perfetta diluizione della tua identità: tutti ti possono vedere, ma nessuno ti riconosce!

Un uomo solo cammina in un parco

La marginalità e l’assistenza ai senza dimora

Quando ci parlo due settimane fa, alla Caffarella, si capisce che lui, come molti altri SD, conosce bene i percorsi della marginalità e dell’assistenza a Roma. Mi dice che conosce la Caritas e che è stato molte volte a Binario 95 alla stazione Termini… Sa che ci sono le docce e la mensa e che si può anche dormire, ma lui in quei posti non ci può stare perché si può morire. Ripete continuamente “non lo so… Non lo so!”. Mi colpisce che spesso dica: “non è coerente!”: stona molto con quello che vedo. È un’affermazione che suona gentile e raffinata. Forse sono le aree ancora sane capaci di incuriosire chi lo incontra. Infatti mi sorprende che da Carla si faccia abbracciare mentre a tiene me a distanza. Al primo incontro gli abbiamo proposto che ci raggiungesse il giovedì successivo all’ambulatorio di “Area ‘95” alla Stazione Termini. Scarse possibilità che ci riuscisse: “Non lo so… Non lo so…”. Poi in una discussione clinica di quelle che dedichiamo mensilmente alla discussione di “Quelli che non vogliono” abbiamo pensato che forse la richiesta implicita di Antonio, che da Milano era fuggito a Roma, fosse quella di essere riconnesso con la sorella Karen a Milano la quale, da parte sua, ora che sa che Antonio è vivo,  vorrebbe venire a Roma e magari a riprenderselo. Le abbiamo detto che, per ora, non serve venga a Roma, ma che aspetti che succeda qualcosa.

Leggi anche: “Elizabeth torna a casa

Il ricongiungimento con la sorella

Nella discussione abbiamo pensato che potevamo mediare il dispositivo del telefono che Karen usava per riconnettersi inutilmente al fratello e a noi. Si tratta di una prima forma di “sufficiente prescrizione” perché Antonio  recuperi contatti affettivi recisi (dissociati?). Per l’organizzazione di un ricovero, che necessariamente sarebbe un TSO – con tutte le incognite della scarsa collaborazione dei servizi psichiatrici –  c’è tempo. Il gruppo ha molte perplessità rispetto alla sollecitazione ad Antonio perché accetti di parlare al telefono con la sorella che non sente da anni. Si sente il tono dell’intrusività violenta di un nuovo trauma. Io insisto perché il semplice gesto di accettazione del telefono, anche senza parlarci, sarebbe un grande passo e potrebbe essere l’inizio. Mi rendo conto che, con Carla, siamo i più “interventisti” e confesso agli altri che forse è perché sono angosciato dall’ultimo report che dice che nel 2023 in Italia sono morti 415 SD, 76 solo a Roma (Fio.PSD, 2024) e, in questi giorni, ha ripreso il freddo e, la notte, si va sotto zero.

Quindi, con Carla oggi siamo tornati alla Caffarella, alla panchina abitata da Antonio. Gli abbiamo confessato che siamo in contatto con Karen e che lei gli vuole bene e che vuole parlargli: “non lo so… non lo so…”. Gli diciamo che, comunque, noi ora le telefoniamo perché lei sa della nostra visita e aspetta una telefonata da noi. Noi ci parleremo e, se lui vuole, potrà parlarle. Quindi parliamo con Karen come se loro due stessero parlando fra loro e poi porgiamo il telefono ad Antonio. Forse il trauma è anche questo: sembra che non si parlassero da ieri ed è ovvio (ma noi non lo sapevamo…) che si parlino nella loro lingua madre: “Buenos días Karen, ¿cómo estás? Soy tu hermano”.

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