Commento all’articolo apparso su La Repubblica, 2 maggio 2015
Mi sembra che sia ormai cosa nota a molti, che i bambini, così come gli adolescenti, possano soffrire di depressione.
Ne parlava già Spitz e poi ancora prima di lui, erano conosciuti gli effetti deleteri di un accudimento deficitario.
Tanto per fare una citazione, ricordo solo Melanie Klein che fa della depressione una fase, anzi una posizione, che il lattante attraversa fisiologicamente nel primo anno di vita, in particolare nel secondo semestre, quando l’oggetto da parziale diventa totale e il bambino comincia a nutrire sentimenti di odio e amore nei confronti della madre sentita ora come oggetto intero.
Nello sviluppo “normale”, se il lattante ha interiorizzato un oggetto buono e saldo in grado di proteggerlo, verrà superata la posizione depressiva, per arrivare alla riparazione di quell’oggetto stesso, che era stato attaccato e distrutto dai suoi attacchi invidiosi. Nel corso della vita, di fronte a un trauma, una perdita, una separazione può essere riattivata la posizione depressiva che se non viene rielaborata può sfociare in una vera e propria patologia depressiva. Sappiamo che lo stato depressivo nel bambino può assumere sfaccettature diverse, da un’inibizione emotiva, cognitiva, motoria, con incapacità a giocare, rallentamento dello sviluppo psicomotorio, a uno stato di tristezza, stanchezza cronica, indifferenza a ciò che accade, oppure, iperattività, difficoltà di apprendimento, disturbi del sonno e alimentari. Certo, tutto questo dovrebbe essere noto agli addetti ai lavori, agli specialisti o agli educatori, alle persone del mestiere che lavorano con bambini. Anche se poi non è sempre vero.
Più difficile, almeno nella mia esperienza, far digerire ai genitori l’idea di avere un figlio sofferente, depresso o comunque bisognoso di aiuto. Perché la depressione, così come ogni malattia mentale, fa paura e suscita in tutta la famiglia sensi di colpa e riattiva chissà quali fantasie. Allora il lavoro fondamentale diventa far accettare ai genitori che il figlio è affetto da un problema serio, che necessita di un trattamento intensivo, due o tre volte alla settimana, a cui i genitori stessi devono partecipare, collaborare, venire regolarmente ai colloqui di restituzione, che possono, talvolta, essere frequenti. Del resto, se partiamo dalla convinzione che spesso la sofferenza del bambino è reattiva a un evento, un trauma, a qualcosa che è andato storto nel corso dello sviluppo, o chissà a che altro è allora indispensabile che anche l’intera famiglia si metta in discussione, per il benessere del bambino in primis e di tutti i componenti.
Ed è un lavoro impegnativo e dispendioso per tutti. Sempre, nella mia esperienza, sono poche le famiglie che rispondono “va bene, porteremo il bambino 3 volte a settimana”, anche se si lavora nel servizio pubblico e il costo è nullo. E sia ben chiaro che le 2-3 sedute settimanali non sono proposte a tutti, solo in alcuni casi in cui sarebbe necessario un lavoro intensivo.
Perché spesso è più facile scappare e voltare pagina di fronte alla sofferenza. Il bambino poi non può rinunciare allo sport, al corso di musica, alle feste di compleanno e l’impegno delle tre sedute è sentito “troppo”, una proposta esagerata, il bambino non è poi così malato. Mi sono sentita anche rispondere “il bambino è ancora piccolo e portarlo dalla psicologa è troppo presto. E poi chissà cosa pensano gli altri bambini, verrebbe preso in giro a scuola”.
Altre volte il genitore, a fronte delle 2/3 sedute, mi ha proposto di vedere il figlio una volta ogni 15 giorni, decidendo orario, giorno e durata del trattamento. Io non penso che problemi profondi possano essere risolti come al supermercato con una formula tre per due, o tre per uno.
Però questo è quello che penso io, in base alla mia formazione che può discostarsi da tante altre, e ciascuno è libero di rivolgersi a terapeuti con le impostazioni più diverse. Penso, inoltre, che sia fondamentale far conoscere l’esistenza della sofferenza, e nel caso specifico, della depressione dei bambini, ai pediatri che spesso sono il primo interlocutore delle famiglie, perché è comprensibile che la famiglia cerchi di evitare o minimizzare il problema del figlio, ma non è più accettabile che l’esperto, il pediatra, risponda davanti all’ansia dei genitori per un bambino che non riesce a dormire, per paure esagerate e incubi o per un altro che mangia solo cibi bianchi, con una pacca sulle spalle riportando tutto “a problemi legati alla crescita, che passeranno con lo sviluppo”! Per fortuna, forse, le cose stanno cambiando.