Mi accadde, molti anni fa, concluso da poco il percorso di specializzazione in Neuropsichiatria, di trovare le parole di von Gebsattelj, quelle scritte a proposito del mondo dell’anancastico “completamente diverso dal nostro da destare nello psichiatra una meraviglia inestinguibile”[1]. Poi, l’affermazione: “È nostra intenzione andare oltre i limiti della teoria degli istinti, nel senso della psicologia del profondo e in particolare della psicoanalisi”. Ancora, il commento di Cargnello: “Non ci stupiamo come scienziati ma propriamente come uomini”.
Osservai me stesso e, riconoscendo come mia una dolorosa, allarmata curiosità nell’incontro con i pazienti in clinica, in gran parte psicotici nella diagnosi psichiatrica, accostai ad essa l’intenzione di un mio (vivo ancora oggi, naturalmente) progetto psicoanalitico, quello di dare senso terapeutico, significato, “alla contraddizione tra un fenomeno familiare, l’uomo, e la sua estraneità” (von Gebsattel).
Mi stavo, in quagli anni, faticosamente formando (Gaburri, Corrao – Milano, Roma) all’uso del gruppo psicoanaliticamente orientato: ingresso di Bion, anni ’50, ’60, anni ‘70 nella cultura psicoanalitica italiana, il suo porre attenzione non alle Pulsioni quanto a ciò che è umanamente evidente, le emozioni, amore, odio, conoscenza, verso cui si muove la terapeutica curiosità. Cosi iniziai a incontrarmi con la complessità del percorso che viaggia tra il tentativo di dare significato all’ignoto del paziente, dei pazienti, nei diversi modi del mio essere psichiatra, non rinunciando a pormi con loro in quanto persone, al di là delle etichette diagnostiche.
L’inizio del mio percorso
Nacquero in questo modo domande non facili, che il mio successivo percorso analitico (psichiatrico, insieme) accentuarono: in che modo riconosco la verità del desiderio dei pazienti d’essere accolti, ora, nella confusa sofferenza, da una umana presenza che si assume il compito di compiere quello che non è stato fatto o che è stato demolito?
Mi accostai al pensiero fenomenologico nella prospettiva di Binswanger, soffermandomi, come scrissi molto dopo[2], sulla posizione da cui l’esserci prende forma e si segnala nella declinazione psicopatologica, intesa come impoverimento dei temi della vita, perdita di flessibilità e organizzazione intorno al tema residuo.
Il pensiero di Eugenio Borgna
Così mi avvicinai a Eugenio Borgna, al fascino della verità di quello che scriveva, poi al suo modo di essere responsabile del Servizio Psichiatrico, infine alla persona, con cui raccontare l’umana follia.
Trovai straordinariamente vicini al mio pensiero i modi in cui Borgna leggeva il modo d’essere del paziente: ”Nel loro divagare, nel loro viaggiare, i pazienti (quelli schizofrenici) sono soli nel deserto dell’incomprensione e del silenzio che è più doloroso di ogni aggressione e di ogni rifiuto; ma nella loro solitudine hanno nostalgia di un ritorno alla patria perduta e di una presenza che si accompagni a essi: ascoltandoli”[3].
Di questa indispensabilità, dialogo e presenza del mondo, nel mondo di chi è psichicamente sofferente ci avvisava Buttolo, paziente definito maniacale, testimone delle assenze, di cui scrivemmo, su invito di Bollorino e Valdrè, quando ci offrirono di commentare la cartella clinica e il Memoriale di quel, paziente manicomiale di inizio secolo scorso (1913)[4].
L’assenza di un contatto dialogico con il paziente
L’osservazione di Borgna rimandava all’assenza di contatto dialogico con il paziente, sostituito dalla implacabilità della sorveglianza.
Io proseguivo la sua osservazione: ”Ciò che chiedono i presunti pazzi è di essere non ascoltati ma ignorati dato che le loro parole, dentro l’istituzione, urlate, scritte, comunque espresse, perdono spessore simbolico, significato”.
Non ignorava peraltro, Borgna ed io con lui, l’angoscia che accompagna ll nostro essere psichiatri per la possibile presenza, nella sofferenza dei pazienti. di una incontrollata angoscia di vivere, quella “di una persona che non è in grado di considerare la sopravvivenza come un dato acquisito”, come osserva la psicoanalista Little[5].
Eugenio scrisse, nelle ultime pagine di “Come se finisse il mondo” sulla fatica del vivere di questi pazienti, e “nella quale l’impossibilità di vivere è sconfinata nella morte volontaria“.
Una mia paziente: ”Sono ossessionata dal non capire cosa è esistere, non ha senso esistere, sono una morta che non riesce a morire”[6].
Il mio incontro con Borgna
Infine incontrai Borgna nel Servizio di psichiatria che dirigeva, a Novara, stando tra le persone malate, le porte che non si devono aprire, quelle da lui aperte; una promessa di fiducia, una disponibilità a tentare.
Condizione che mi permise di parlare e pensare con lui sui modi che la psichiatria (forse non tutta) aveva trovato e stava proseguendo a cercare nella fondamentalità [7] dei diversi percorsi psicoterapici.
Nei nostri colloqui, ove proponevo il mio progetto psicoanalitico e la lettura di miei scritti, Eugenio Borgna mi aiutò a confermare che “nella ovvia distinzione delle metodologie e delle epistemologie dei due indirizzi di ricerca (fenomenologica e psicodinamica)è possibile oggi considerare i due temi, modi d’essere e d’agire. come non antitetici e integrabili nei loro orizzonti” (1999,op.cit.).
Continua il nostro colloquio.
[1] E. Minkowski, V.E. von Gebsattel, 1938, Antropologia e psicoanalisi, Bompiani, 1967.
[2] C. Conforto, Binswanger e Freud quando si scrivevano, “ Il vaso di Pandora”, 2015.
[3] E. Borgna, Come se finisse il mondo, Feltrinelli,1995.
[4] E. Borgna, “Cesare Buttolo . Una prospettiva fenomenologica”- C. Conforto, “Una chiave di lettura psicoanalitica”, In, F. Bollorino, R. Valdrè ( a cura), Il caso Buttolo, una cartella clinica di inizio secolo, UTET, 1996.
[5] M. Little, 1986, Verso l’unità fondamentale, Astrolabio, 1994.
[6] C, Conforto, Le stanze della solitudine e l’altra stanza. Riv. Psicoanal. 2014, n.4.
[7] Ho fatto spesso riferimento, pensando al mio legame con Eugenio Borgna, al suo proporre nello scritto fondamentale “Noi siamo un colloquio” ( Feltrinelli, 1999), la lirica di Hoderlin:
“Molto ha esperito l ’uomo.
Molti celesti ha nominato
da quando siamo un colloquio
e possiamo ascoltarci l’un l’altro”.