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Cinema e malattia mentale: il lato oscuro dello schermo

Il cinema da sempre sembra avere una predilezione per la rappresentazione della malattia mentale di diverse tipologie. Le tematiche che si sono susseguite sugli schermi sono molte e gli effetti prodotti non sono sempre stati positivi.

Il cinema e la rappresentazione della malattia mentale

Sin dalle sue origini, il cinema è stato spesso affiancato alla questione delle malattie mentali. In un medium che si poneva come rappresentazione della realtà, ovviamente non potevano mancare gli squilibri psichici che possono affliggere la popolazione mondiale. Ed è anche rilevante vedere come, a fine Ottocento, materia cinematografica e materia psicologica stessero mettendo le radici quasi in contemporanea. Il fascino che ha mostrato il cinema verso la malattia, la mente “diversa”, può essere inquadrato nel tentativo umano di comprendere, appunto, delle diversità, di umanizzarle, ma anche di lasciare interdetto un pubblico coccolato dal perbenismo come poteva essere quello degli ultimi decenni del Novecento. Insomma, le declinazioni con cui la malattia mentale è stata portata nel cinema sono diverse e hanno portato a molteplici conseguenze, sia da un punto di vista tecnico, sia narrativo, sia anche sulle più recenti metodologie psicologiche (si pensi alla cinematerapia).
Risulta interessante notare come in entrambe le discipline – cinema e psicoanalisi – ci sia il bisogno di costruire storie. Come nei film c’è la necessità di scrivere una sceneggiatura per rappresentare vicende e personaggi, così nei percorsi psicologici il paziente e il terapeuta necessitano di ricostruire la storia della persona, di ripercorrere l’esistenza di chi sta male, che spesso perviene frammentata. Entrambi condividono lo stesso soggetto: le emozioni. Così il cinema si è “impossessato” degli aspetti clinici di alcune malattie mentali, alimentando un filone narrativo che ad oggi probabilmente è dominante.

Caricatura o comprensione?

Quello che la commistione tra cinema e malattia mentale ha prodotto può essere interpretato con due connotazioni differenti.
Da una parte, c’è l’effetto positivo che l’incontro ha prodotto: attraverso i film e l’immedesimazione, è stato possibile immaginare una persona “diversa” come nostro simile e non più al di fuori della società. Lo spettatore è riuscito ad avvicinarsi a storie e persone che altrimenti sarebbero state lontane e forse pericolose per lui. Insomma, si è avvicinato alla sofferenza altrui, contribuendo a generare consapevolezza su malattie come schizofrenia, depressione, ansia, disturbo bipolare e così via. Non solo: da questi sono nate anche battaglie ideologiche per migliorare le condizioni di chi soffre di certe patologie.
Dall’altra, vi è l’accezione negativa dell’incontro: la rappresentazione cinematografica risulta esagerata, drammatica, caricaturale, e contribuisce a rafforzare stigma, preconcetti e atteggiamenti discriminatori verso questi disagi psicologici. In alcuni film, vengono rappresentati gli stereotipi che da tempo accompagnano i diversi tipi di infermità mentale, come lo scienziato pazzo, l’autistico geniale, l’assassino psicopatico, la paziente seduttrice, il drogato suicida. Questo scenario aumenta la disinformazione del pubblico e provoca una considerazione pietistica o un allontanamento per paura nello spettatore.

Alcuni esempi di film su una malattia mentale

Sono moltissimi i film proiettati al cinema in cui si è parlato di una malattia mentale o comunque dov’era presente questa tematica in maniera più o meno esplicita.
C’è per esempio Rain Man – L’uomo della pioggia (1988) con Tom Cruise e Dustin Hoffman che affronta un particolare disturbo dello spettro autistico, la Sindrome del savant. Il famoso A Beautiful Mind (2001) di Ron Howard vede il suo protagonista affrontare la schizofrenia paranoide. Ancora più famoso è forse Forrest Gump (1994), che ha mostrato al mondo intero cosa significa vivere con l’autismo, ma non solo. In The Aviator (2004), Leonardo Di Caprio è un aviatore che soffre di disturbo ossessivo-compulsivo. L’attore è poi tornato come protagonista nel thriller psicologico Shutter Island (2010), dove tutto giro intorno a un ospedale psichiatrico e alla scoperta dei propri demoni. American Psycho (2000) mette Christian Bale nei panni di chi deve affrontare un disturbo d’ansia e da stress post-traumatico. Ancora più crudi sono Split (2016) con James McAvoy sul disturbo dissociativo dell’identità, Il Cigno Nero (2010) con Natalie Portman che affronta l’autolesionismo e il disturbo borderline di personalità, e infine Joker (2019) con Joaquin Phoenix afflitto da diverse malattie mentali e in particolare dalla sindrome pseudobulbare.

La mobilitazione del mondo del cinema per le malattie mentali

Molti sono gli attori che si sono cimentati nell’interpretazione di personaggi affetti da una malattia mentale. Anche per questo il mondo del cinema, soprattutto dagli anni ’90, ha iniziato a essere più attento a come affrontava e rappresentava tali tematiche, proprio per non ricadere nei cliché o negli effetti negativi che si è visto possono crearsi.
Per esempio, nel 2013 Glenn Close e Bradley Cooper hanno manifestato la loro volontà di contrastare l’isolamento e l’incomprensione che colpiscono coloro che soffrono di disturbi mentali. Entrambi gli attori, infatti, avevano interpretato personaggi mentalmente problematici, rispettivamente in Attrazione fatale (1987) e Il lato positivo (2012), per cui hanno deciso di impegnarsi per favorire la prevenzione, la diagnosi e l’eliminazione dello stigma su queste malattie.
Molte altre sono le star di Hollywood che da tempo portano avanti battaglie in questo senso, ma anche cantanti e comici. Demi Lovato, Cher, Gwyneth Paltrow, Cara Delevingne, Emma Stone, Pete Davidson: molti sono attivi nella promozione del dialogo sulle malattie mentali.

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