Commento alla notizia apparsa su La Repubblica il 22 settembre 2015
Limitiamoci a parlare del Viagra.
Le ragioni del suo vasto uso (e abuso) mi sembrano tante.
E’ cambiato il nostro approccio al desiderio sessuale e alla sua soddisfazione.
Passati i tempi in cui Freud poteva scrivere “la società deve assumersi come uno dei suoi compiti educativi più importanti quello di domare, di limitare la pulsione sessuale quando essa erompe in forma di impulso riproduttivo, di sottometterla a una volontà individuale che sia identica all’imperativo sociale… la pulsione romperebbe altrimenti tutti gli argini e spazzerebbe via l’opera, faticosamente edificata, della civiltà”.
Non viviamo più come così drammatica la contrapposizione fra godimento individuale e ordine sociale e anzi, come di recente faceva notare Valdrè nel suo volume, è subentrato un qualche tipo di obbligo sociale al godimento e ciò anche in grazia dell’azione liberatoria della psicoanalisi; certo, insieme ad altri fattori come il movimento femminista e soprattutto il passaggio a una economia industriale.
In questa, infatti, si è fatalmente indebolito il ruolo della famiglia come cellula sociale di base investita di funzioni anche di controllo, e nel cui ambito soltanto (almeno formalmente) alla coppia era permesso impegnarsi in una attività sessuale ben controllata ed esclusiva di ogni promiscuità.
Ma, torniamo a Freud il quale segnalava come anche ai suoi tempi la principale motivazione del ricorso alla terapia psicoanalitica fosse la ricerca di un rimedio all’impotenza psichica. E questo introduce a un altro aspetto: l’attuale cambiamento consistente nel dilagante ricorso al farmaco come risposta-scorciatoia anche a problemi che di strettamente clinico hanno poco: nel caso del Viagra, la difficile competizione con altri maschi, magari mitici come Rocco Siffredi; o l’obbligo di soddisfare una partner che rivendica più apertamente di un tempo il suo diritto al piacere.
Certo, ha la sua parte la ricerca, entro certi limiti legittima, del piacere personale: se ci si offre uno strumento che permette di aumentarlo e prolungarlo, perché no?
Ma questo apre il capitolo dei vissuti di onnipotenza indotti dalla crescente disponibilità di strumenti di ogni tipo, non solo farmacologici: ci facilitano la vita, ma non senza costi. Limitandoci ai farmaci, basta pensare agli antidepressivi che, pur appropriato rimedio a condizioni francamente psicopatologiche, tendono a spiazzare interventi più complessi e impegnativi ma più “veri” come quelli psicoterapico-relazionali; o addirittura a diventare la soluzione offerta al dolore della vita: ce lo ricordiamo il Prozac “pillola della felicità”? Fra l’altro, come sempre accade nella sopravalutazione idealizzante, questo farmaco ha finito con l’esser criticato anche al di là del giusto, sopravalutandone non più tanto i benefici quanto gli effetti secondari e rischi, perfino di suicidio; ma anche ciò, in fin dei conti, ne sottolinea il potere.
Queste costellazioni emotive collettive con connotazioni magiche che si sovrappongono all’azione farmacologica non sono una novità: basta ricordare il termine “uomo medicina” impiegato dai nativi americani per indicare l’essere privilegiato che non solo lotta, con appropriati rimedi, contro le malattie fisiche e psichiche, ma facilita l’armonia interna alla collettività e i rapporti di questa con la natura.
Onnipotenza = negazione del rischio. Questa appare specifica della nostra attuale cultura, almeno in parte come effetto secondario della crescente disponibilità di strumenti. Chiediamo in ogni campo tutele crescenti, anche se la condizione socioeconomica rende sempre più difficile mantenere questa pretesa; e anche se almeno alcuni di noi manifestano una paradossale nostalgia del rischio, correndo in automobile o con gli sport estremi.
Che c’è da stupirsi se non vogliamo rischiare neppure una cilecca a letto?