In un precedente lavoro mi ero soffermato sulle difficoltà nell’integrare i punti di vista giudiziario, peritale, e quello clinico, la cura della sofferenza nelle separazioni. Avevo per questo ripreso il dibattito sulla cosiddetta Alienazione Parentale, presente solo nella letteratura giuridica, per descrivere situazioni di esclusione di un genitore dalla vita del figlio. Tale problematica, segno di una conflittualità non risolta dalle sentenze di separazione, è arrivata sino alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Ringrazio Grazia Zuffa per l’aggiunta di informazioni che mi mancavano e per avere centrato il tema dei limiti delle CTU, con la sottolineatura, voluta o trapelata, dei limiti delle valutazioni peritali nel promuovere, al momento delle separazioni, l’interesse dei minori coinvolti e degli stessi genitori. Mi riferisco al rilievo di “misoginia” nei tribunali. A tale proposito, metto anche a disposizione un riferimento ad una sentenza della CEDU, favorevole al padre ricorrente.
In una materia così poco “scientifica” e contraddittoria, in un ambito così centrato sulla scelta tra posizioni conflittuali senza mediazioni possibili, in situazioni così evidentemente traumatiche per i minori, e per gli stessi contendenti, è possibile pensare ad una diversa integrazione tra i punti di vista giuridico e quello clinico, allo scopo di proteggere la salute mentale delle persone coinvolte? Possibile sostenere l’attenzione non sull’obbiettivo giudiziario, vincere la causa, avere ragione, ma sull’obbiettivo profondo, garantire ai minori certezze affettive e relazionali, il riconoscimento della loro centralità di soggetti traumatizzati?
Da Salomone in poi arrivano ai giudici richieste di risolvere contese difficili se non impossibili sui minori. Salomone riuscì a trovare una soluzione centrata sull’amore della madre vera verso il bambino. Nella direzione della ricerca dell’interesse profondo del minore, occorre spostare l’attenzione sulle ricadute delle sentenze sulla salute dei minori ed anche su quella dei genitori coinvolti. Il salire di grado nei tribunali, Cassazione e CEDU, è sicuramente una risposta garantista, e opera nell’interesse dei minori. Tuttavia i provvedimenti dei giudici, l’allontanamento da un genitore, l’isolamento dall’ambito familiare, l’inserimento in strutture “terze”, rispondono alla necessità di chiudere nel migliore dei modi una causa di separazione, ma possono non essere sufficienti a favorire il vero interesse del minore. La serenità dell’ambiente di vita può non bastare a sostenere il lavoro del minore nel trauma separazione: tenere unita nella sua mente la coppia genitoriale, trovare un senso nel conflitto, esplorare la sua presenza nella mente dei genitori così presi dal loro conflitto, recuperare le radici amorose originarie perse, crescere come soggetto altro da ambedue i genitori.
Nel recente convegno del Laboratorio di Psicoanalisi Multifamiliare (LiPsiM) una avvocatessa aveva chiesto se e come i gruppi di psicoanalisi multifamiliare potevano contribuire a detendere la conflittualità nelle separazioni, per favorire soluzioni protettive dei minori e di aiuto ai genitori nel riflettere sul loro inesauribile bisogno di prevalere. L’avvocatessa aveva avuto la possibilità di cogliere nelle regole del setting multifamiliare, non si parla per avere ragione, si parla uno per volta, prenotandosi, aspettando il proprio turno. In questo modo è possibile frenare l’irruenza di risposte impulsive e sorde e, contemporaneamente, costringere a rimeditare l’intervento e ad arricchirlo con l’ascolto dei contributi di altri partecipanti al gruppo. Nell’ultimo capitolo di Psicoanalisi Multifamiliare (Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pag. 241) J. E. Garcia Badaracco parla dell’applicazione dell’approccio multifamiliare alle aree dei conflitti umani. “Nell’ambito della giustizia, tutte le liti implicano conflitto. La tendenza attuale, con lo sviluppo della mediazione, è quella di cercare la soluzione del conflitto manifesto e/o nascosto per evitare, se possibile, la lite. La psicoanalisi multifamiliare, essendo un modo di affrontare la risoluzione di conflitti di ogni tipo in un campo di esperienza condivise che favorisce proprio i processi di elaborazione del conflitto, può avere un’applicazione diretta nell’area della mediazione. L’esempio paradigmatico è quello dei conflitti familiari, che tendono naturalmente alla risoluzione attraverso la psicoterapia, e a trasferire tutto sul piano legale quando è impossibile trovare soluzioni soddisfacenti.
La psicoanalisi multifamiliare, nel terreno condiviso da avvocati e giudici, psicologi e psicoanalisti, è un campo di lavoro privilegiato per trattare i conflitti familiari, quali la violenza, sia evidente che nascosta, nelle sue diverse manifestazioni, le dispute a volte interminabili per la custodia dei figli, le lotte a volte feroci per motivi economici, ecc. Qui la collaborazione interdisciplinare sta avendo sempre più successo”.
Riprendo per questo l’evoluzione di una esperienza clinica già pubblicata su questo giornale, un esempio di psicoterapia multifamiliare, l’elaborazione fatta da Anna con la madre e con il suo nuovo compagno.
Anna, ventidue anni è figlia di genitori che si erano separati quando aveva quattro anni. Cresciuta con la madre e il suo nuovo compagno, ha perso il padre all’età di otto anni, in (fortuita?) coincidenza con la nascita di un fratello, figlio della nuova coppia.
Si è ricoverata per problemi comportamentali e di abuso di sostanze, mentre la madre era prossima a concludere una nuova gravidanza. Nelle prime settimane di ricovero, al gruppo hanno partecipato solo la nonna e una zia materna: hanno così favorito l’ingresso di una Anna inizialmente ostile a condividere il suo problema, perché timorosa di non essere capita e di essere giudicata, e preceduto la partecipazione della madre, inizialmente impossibilitata a partecipare per il periodo del parto.
Non senza difficoltà Anna e la madre hanno potuto parlarsi, riprendere la storia della uscita di scena del padre, del senso delle sue assenze. Ambedue hanno lasciato emergere rancore e affetto, separarsi e rimanere vicine. La madre ha parlato della separazione dei suoi genitori, delle intrusioni dei nonni materni e paterni, del desiderio di evitare la sua sofferenza di bambina alla figlia bambina. Anna ha potuto esplorare i sentimenti della madre verso il padre successivi alla separazione e a lei apparsi fonte di “disordine” quando la madre ha accolto l’ex marito nella casa in cui viveva con il nuovo compagno.
Anna ha potuto recuperare attraverso il lavoro del GPMF il dolore sottostante alla sua sintomatologia, esprimere il suo affetto per il padre, sostenere la madre ancora risentita per le scelte di vita del marito, accettare di essere fuori dalla nuova famiglia della madre.
A sua volta la madre ha avuto modo di recuperare il senso del comportamento della figlia, rivivere il proprio dolore di figlia di genitori separati, soffermarsi sulle contraddizioni tra il risentimento verso il padre di Anna e l’investimento affettivo verso il nuovo compagno. Ha potuto accettare che Anna si sentisse estranea nella nuova famiglia, quando assieme hanno ricordato che anni prima era nato il primo figlio della nuova coppia, mentre il padre di Anna moriva prematuramente per una patologia cardiaca.
Anna, con la nonna e lo zio paterni, mai entrati nel gruppo e rimasti sullo sfondo affettivo della ragazza, stanno ora costruendo un progetto di dimissione dalla clinica: una stanza per Anna nella loro nuova casa, scelta in vicinanza della casa della madre di Anna.
Per concludere: il GPMF si è rivelato un luogo psicologico che ha reso possibile ad Anna e alla madre di andare oltre il quadro sintomatologico, di esprimere i sottostanti sentimenti ostili rinunciando alla pretesa di avere ragione e disponendosi all’ascolto del parere diverso dal proprio, fino ad allora non accettato, e di imparare a tollerarlo.