Quando ero piccolo, ero sempre molto attento a quello che dicevano i miei genitori. Anche quando sembravo distratto, oppure mentre giocavo o guardavo la televisione. I miei genitori erano per me molto importanti, ovviamente. Il centro della mia vita. Si prendevano cura di me, mi aiutavano quando ne avevo bisogno. Mi consolavano quando mi facevo male, mi sgridavano se facevo qualcosa di sbagliato. Tutto questo io lo accettavo, perché era giusto. Accettavo il loro giudizio. Certo, talvolta poteva capitare che le cose non filassero nel modo in cui avevo immaginato, ma era parte del gioco. Il gioco del prendersi cura dell’altro. Il gioco dell’educare. C’era solo una cosa, però, che non accettavo e che rappresentava la delusione più amara, facendomi sentire non amato e non pensato: la promessa non mantenuta. Quando un adulto faceva una promessa, quella per me era qualcosa di sacro, un patto solenne infrangibile. Se veniva infranto, l’amarezza e il dolore diventavano cocenti, perché mentire, dare false illusioni è un’azione incomprensibile per un bambino. Questo lo si può constatare molto bene quando si hanno dei figli. Nei loro occhi lo sconforto, la frustrazione, il disinganno diventano sinonimi di fallimento, il loro fallimento. Perché pensano di essere sbagliati, di non meritare l’amore dei genitori.
Se questo avviene quando si è curanti di persone molto fragili, che hanno perso tutto, la cui mente è incapace di sperimentare la serenità, perché costantemente in balia di mostruosità che vogliono divorarli, alle quali il futuro riserva, quando va bene, una semi-autonomia guadagnata con fatica e sofferenza costanti, il fallimento che prova la persona è, in realtà, il fallimento di chi se ne prede cura. La speranza, per quanto labile o sottile possa essere, è sempre il motore che promuove i più grandi cambiamenti e le rivoluzioni. Infrangerla, dopo averla nutrita per un certo tempo, avrà costi inimmaginabili in colui che ne sarà vittima. Lo porterà all’esasperazione, alla rabbia verso gli altri, ma soprattutto verso se stesso. Sentirà la vita non solo come matrigna, ma soprattutto come carnefice. I suoi pensieri saranno estremi, insopportabili e talvolta indicibili. “Dottore, non sopporto più questa situazione. Mi sento morire dentro. Cosa mi succede?”. Il nostro compito perciò non è dare false speranze, crogiolandoci nell’onnipotenza, ma aiutarli a convivere con un dolore che possono condividere, con un fardello che possono spartire. E quando ce ne sarà bisogno, noi saremo lì ad ascoltarli, a sostenerli, con i nostri limiti, con le nostre fatiche. Avendo costruito insieme a loro un sentiero che percorriamo mano nella mano, fino a quando il destino ci separerà e un altro viandante li accompagnerà lungo il viaggio.