Vaso di Pandora

Io e Vela al lavoro. Lo sguardo di una giovane labrador sulla sofferenza psichica

Mentre Lavinia, mia figlia, parte e amorevolmente mi lascia cibo, guinzagli, cintura di sicurezza e una specie di necessaire di Vela, mi dice, P, così mi chiamano i miei figli, portatela al lavoro in questi giorni.

Non pensavo affatto che fosse il caso ma poi, sentito il gran caldo e dispiacendomi di lasciarla sola tutto il giorno, decido di seguire il consiglio di Lavinia.

Naturalmente penso a Boè, il cane di Giovanni Giusto, che partecipa ad un congresso, ad una riunione di lavoro e, infine, alle osservazioni puntuali sulla sua funzione di mediazione nella Rems. Penso anche con nostalgia ai nostri incontri e mi sfiora una tristezza infinita che trascina con se i miei lutti su cui mi sto impegnando tanto, in questo ultimo anno.

Il primo giorno di Vela al lavoro

La mattina andiamo al gruppo, denominato Assemblea, della comunità terapeutica (mi rifiuto di chiamarla Struttura Residenziale Terapeutico Riabilitativa Estensiva) di Castel di Guido.

La riunione è iniziata. Con Vela superiamo con cautela la colonia felina voluta e curata da una utente. All’entrata è lei che viene incontro abbracciando Vela che scodinzola a tutti e eccitatissima inizia a saltare e leccare utenti e operatori. Una infermiera fa lo stesso, la bacia, l’abbraccia, e l’eccitazione va alle stelle. Un utente infastidito si alza e va fuori a fumare. Io fatico per fare calmare Vela, che tutti continuano a sollecitare. Poi lentamente riesco e lei si sdraia al centro del gruppo e si addormenta.

L’incontro è monopolizzato da un giovane utente che deve partire con gli amici, nonostante una diagnosi recente di mononucleosi. Lui minimizza, la sua onnipotenza lo ha trascinato in passato fino ad una caduta da 10 metri e mesi di rianimazione e riabilitazione. Alla dimissione dal SPDC il primario ci disse, purtroppo lui è un uomo morto, è insalvabile. È passato un anno. Gli operatori della comunità tentano di fermarlo, lottando contro tutti (lui, gli amici, i genitori, il medico di base).

Vela resta immobile, sembra disinteressata. Poi iniziano a parlare di animali e decidono di fare una votazione, senza che io dica nulla a riguardo, sulla possibilità di avviare in comunità un allevamento di cani. Allora parlo di un progetto familiare di cucciolata e fantastichiamo che Vela potrebbe essere la progenitrice di questo allevamento. Poi parlano di educatori cinofili, di lavoro, di tirocini e di un recinto da costruire per separare i cani dai gatti.

Andiamo via, Vela è molto tranquilla e in macchina si appisola nuovamente.

Il pomeriggio resta nella mia stanza al CSM e ogni tanto esce in giardino a fare un giro. Non vedo altri pazienti.

Secondo giorno

La mattina la lascio a casa, vado in SPDC e non posso portarla.

Il pomeriggio passo a prenderla e andiamo a studio.

Il primo paziente che incontra è titubante al suo incontro. Dice che ha un po’ paura, ma lei “gli sembra buona”.

In stanza Vela, dopo qualche festa poco ricambiata, si siede accanto a me.

Lui è in un periodo di grande intensità emotiva e di rinascita. È il paziente che seguo da più tempo in assoluto, sei anni di psicoterapia e diverse tranche di ripresa. Trenta anni che lo conosco. Perversioni, depressione, discontrollo e grande sofferenza psichica. Da ragazzo agiva sadiche violenze sui gatti. Non ne parla più da tanti anni. Ormai è un padre amorevole, con qualche nucleo perverso ad attivazione episodica. E qualche fase di brutti pensieri di suicidio.

Vela si tiene alla larga. A metà seduta interrompe il sonno all’improvviso e salta in piedi abbaiando. Mai visto un comportamento simile. Lui sussulta. Io minimizzo, avrà sentito qualcuno, gli dico. Vela torna accanto a me e si sdraia vicino ai miei piedi.

La seduta procede intensa. L’ultima prima della interruzione estiva. Tocchiamo quasi tutti i grandi temi della sua vita. Tranne la questione dei gatti.

Sulla porta da’ una carezza affettuosa sulla testa di Vela e va via con un grande sorriso.

Arriva una giovane avvocata, sorpresa di incontrarla.

Bella, come si chiama? Vela! Ah che nome!

Ha una grande passione per la vela e coglie bene quanto l’abbiamo in comune.

Vela la marca stretta girandole intorno alla ricerca di carezze e affetto. Lei la ricambia tranquilla, ma non le piace essere leccata, per questo la chiamo. Vela immediatamente si calma, prima accanto a me e poi si acciambella intorno ai piedi della paziente e dorme tranquilla per tutta la seduta, che scorre profonda sulla recente vacanza trascorsa con la madre, ed una brutta crisi di angoscia che ha accompagnato una serata tra di loro. La questione era la morte del padre, e avevano pianto insieme la sua mancanza.

Il terzo giorno di Vela

Ci fermiamo al CSM dove ho la mia stanza, poi la lascio e vado a fare la riunione al secondo CSM, quello grande e di frontiera, via Boccea. Poi torno. La trovo tranquilla, sembra a casa propria. Nel pomeriggio abbiamo tre visite.

La prima paziente ha 3 gatti, ama gli animali, la saluta, è sorpresa ma presto si dimentica. Vela fa le sue solite feste, ma sempre più composta rispetto alla prima giornata. La distrazione iniziale dura sempre di meno. Questa visita non viene minimamente alterata dalla presenza di Vela.

La seconda visita sono due fratelli, entrambi psicotici. Uno più grave, l’altro più bizzarro ma funzionante. Il paziente grave dice di essere un po’ a disagio con i cani. Sto per lasciare Vela in una stanza attigua ma lui ci ripensa e propone di farla entrare. Non mi mette paura questo cane, mi dice.

Vela non disturba e si sdraia accanto alla porta. Seduta di psichiatria classica. Il paziente grave, sempre molto lamentoso, inaspettatamente mi dice che sta molto meglio. Il fratello, così come fa al gruppo di psicoanalisi multifamiliare, si addormenta.

L’ultima visita è molto dura. È l’ultimo incontro con una coppia che lo scorso anno ha perso l’unico figlio, di 21 anni, per un incidente in mare. Li ho seguiti una volta a settimana, negli ultimi 3 mesi ogni 15 giorni. Sono appena tornati dal Camino de Santiago. Mi portano spesso delle testimonianze. Una foto sotto la basilica, abbracciati, con la maglietta con la foto del figlio.

Poi i certificati del Camino. Hanno fatto 350 chilometri in dieci giorni. Hanno ricominciato ad uscire e camminare su mia prescrizione, una delle poche che ho potuto dare, tanto per scrollarmi di dosso il dolore che mi portavano ogni volta.

Ho chiesto se erano mai caduti, riprendendo un racconto della caduta di lei, una volta che era andata a correre. Mi aveva detto che la caduta e il sangue e il dolore le avevano fatto bene. Si era rialzata e aveva finito il suo piccolo allenamento.

Lui scoppia a piangere, Vela allora si alza e gli va vicino con la testa, senza infastidirlo. Lui la accarezza e racconta che dopo pochi minuti che avevano cominciato a camminare, il primo giorno, era caduto. Pensava di avere compromesso il loro viaggio. Poi si era sorpreso per questa preoccupazione, rendendosi conto che ricominciava a pensare alle cose semplici della vita. Come accade spesso con questa coppia in alcuni passaggi mi commuovo, discretamente, anche io. Loro sono abituati. Ormai lo sanno.

Vela non si avvicina alla signora, ha capito che lei è più diffidente, mentre con lui è affettuosa anche quando vanno via. Li rivedrò a settembre e poi solo su loro richiesta, per una chiacchierata o un saluto. Mi dicono sulla porta, un anno esatto che ci vediamo, era successo lo scorso agosto. E lei continua, solo adesso ho capito quello che intendeva. Che avevamo il compito di prendere la eredità di nostro figlio. Solo in questi giorni ho capito.

Vela intanto gioca in giardino e va a salutarli a distanza, scodinzolando felice.

Al rientro non mi succede quello che tante e tante volte dopo gli incontri con loro mi accadeva: scoppiare a piangere. Sarà che la seduta è andata bene, o semplicemente mi sono distratto, lanciando la pietra a Vela nella stradina di accesso del CSM.

Conclusioni

Un caro collega, durante uno dei meravigliosi incontri del gruppo Ascoltiamoci, una specie automutuoaiuto tra direttori italiani, mi raccontava, questi giorni, di uno che non scriveva mai le conclusioni dei propri articoli. Un altro mi ha detto che chiamava il suo ultimo paragrafo “Per non concludere”.

Parlavamo di vita e di morte. Ci siamo anche commossi, a parlarne insieme.

Gli uomini si tengono sempre alla larga dalla morte. Fanno bene, altrimenti sembra che ci tiri a sé. Ma vivere scappando sempre ci porta ad andare in giro per le otto montagne di Cognetti o a galoppare verso Samarcanda, finendo proprio tra le braccia da cui cerchiamo salvezza.

Vela vive la sua vita breve ed io, che la sono andata a prendere in un giardino, con i miei figli e mia moglie, quando ancora eravamo tutti insieme, andavo dritto, con lei piccolissima tra le braccia, a guardare la morte, quella del mio cane precedente, Randa, quella di mia madre, mio padre, il mio patrigno e tutti gli amici giovani e belli che ho perduto, per sfortuna, troppo presto. E il coraggio di vivere con un cane la propria vita sta proprio in questo. Guardare in faccia la morte, persino con tenerezza.

E forse è questa l’essenza del nostro lavoro. Che abbiamo scelto, almeno per chi viene dalla medicina, proprio per stare alla massima distanza dalla morte.

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