La Stampa, edizione digitale del 10/10/2024, ha pubblicato l’intervista di Luigi Grassia al filosofo Luca Tambolo, uno dei protagonisti del festival “Misurare il mondo”, organizzato dal CICAP, Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze, fondato da Piero Angela. L’intervista, “Vi spiego perché tante persone hanno paura della scienza. Non è solo questione di ignoranza” è molto stimolante e offre idee per rendere meno lontane le posizioni prevenute ed ostili, quali quelle “negazioniste”, e per ricordare le basi metodologiche che hanno permesso il progresso delle scienze e che le differenziano dalle “pseudoscienze”.
La sfiducia nella scienza
Un passaggio dell’intervista mi ha particolarmente coinvolto, la risposta alla domanda sul perché esiste una diffusa tendenza ad avere sfiducia nella scienza.
“Mi sono fatto un’opinione precisa. L’idea che alla base del negazionismo ci siano l’ignoranza e la scarsa alfabetizzazione scientifica è sbagliata. Non si risolve il problema se gli scienziati diffondono più informazioni. La mia impressione è che certi risultati della scienza abbiano un impatto potente sulle nostre vite e che questo crei forti preoccupazioni e limiti il desiderio di autodeterminarci”.
La condivisione dell’esame di realtà e la costruzione di una alleanza terapeutica sono due passaggi delle attività di cura in cui è frequente la difficoltà, se non l’impossibilità, che il paziente e il curante possano procedere assieme.
Nell’approccio causalistico della medicina delle evidenze, l’incontro curante paziente si muove lungo i binari collaudati del conosciuto, dell’oggettivo: questo sa la scienza, queste sono le diagnosi e le terapie, questi sono i protocolli riconosciuti da applicare.
Possono nascere conflitti, rifiuti; il curante lavora sul senso del contrasto, sa che si attivano paure, bisogni di verificare altri referenti, paure, ma non mette in discussione il suo sapere.
La collaborazione nel lavoro psicoterapico
Quando però ci si muove nell’ambito del lavoro psicoterapeutico, non si applicano dei protocolli, ma si costruisce una collaborazione che presuppone la maggiore evidenza della componente “soggettività” dell’osservatore-curante e la richiesta al paziente di una sua partecipazione attiva al lavoro della cura, l’attivazione della sua “soggettività”.
Per condividere lo strumento “esame di realtà”, nel lavoro psicoterapeutico, curante e paziente si incontrano nella scoperta, nella ricostruzione e nella elaborazione di eventi, rapporti, dinamiche familiari che stanno alla base del malessere. Ambedue sanno che il noto non è sufficiente e accettano la possibilità di costruire assieme un nuovo punto di vista per ripensare le radici dello stare male. Ambedue procedono assieme nella lettura di quanto emerge e, come metodo di lavoro, non danno nulla per definito a priori, accettano dubbi, si muovono con curiosità.
In questa situazione rimane valido il metodo scientifico, e il curante può procedere sapendo di andare ad esplorare, a scoprire, perché le sue certezze sono solo nel metodo, nei dubbi e nelle incertezze che lo animano, non nel già conosciuto. Bion insegnava a procedere “senza memoria e senza desiderio”, Garcia Badaracco entrava nei gruppi di psicoanalisi multifamiliare dicendo e dicendosi “Andiamo ad imparare”.
Le regole del gruppo di psicoanalisi multifamiliare
All’inizio del gruppo di psicoanalisi multifamiliare vengono sempre ricordate le tre regole che permettono di sviluppare assieme una capacità esplorativa nuova, più potente; la terza regola ricorda di parlare senza la pretesa di avere ragione. Le dinamiche del gruppo multifamiliare, quali il rispecchiamento e la identificazione proiettiva, favoriscono l’emergenza di elementi affettivi e cognitivi nuovi, ancorati nel profondo, rimossi o negati.
Più in generale nel GPMF si attivano la ricostruzione e la rappresentazione di dolori e traumi, che non avevano trovato possibilità di narrazione e di ascolto in altri contesti di cura. L’invito a non dare per immodificabili le convinzioni precedenti vuole favorire il confronto e aprire alla riflessione andando oltre le posizioni pregiudiziali. Il gruppo di psicoanalisi multifamiliare costituisce un punto di vista nuovo, permette una visione allargata, diversa, arricchita, più profonda, di quanto precedentemente acquisito. Quanto emerge nel gruppo viene ascoltato non in funzione di un inquadramento sintomatologico, oggettivante, aderente al sapere già noto, ma nella prospettiva di riconoscere l’unicità della sofferenza e di comprenderne il senso.
L’interrogativo sulla scientificità
La rivoluzione basagliana ha messo in discussione proprio l’aspetto chiuso, ripetitivo, istituzionalizzato delle cure, e, in linea con la cultura del tempo, ha posto l’interrogativo sulla scientificità di conoscenze chiuse e di un metodo di conoscenza privo del rispetto della soggettività del paziente, dei familiari e dei curanti.
L’ipotesi psicopatologica della patologia mentale come segno di una patologia relazionale tra paziente e genitori ha trovato nelle dinamiche del GPMF l’assetto per una sua osservazione ed esplorazione. Il GPMF favorisce l’uscita dalla passivizzazione della cura, la parola al tecnico che sa, e dalla chiusura della cura nelle convinzioni acquisite, scientifiche o costruite su basi emotive e di difesa dal dolore. Pazienti, familiari e gli stessi curanti partecipano in prima persona allo stesso processo di messa in discussione del già sperimentato.
In un recente gruppo di psicoanalisi multifamiliare
In un recente gruppo molti partecipanti, sia pazienti che familiari, avevano proposto una sorta di scissione tra le inadeguatezze delle cure sino ad allora ricevute e l’accoglienza della struttura di ricovero e in particolare dell’occasione offerta dal gruppo di potere parlare e di sentirsi ascoltati. Un padre si era poi soffermato su come la figlia non si era più ripresa da un lutto che lui stesso aveva saputo affrontare perché vaccinato al dolore.
Una madre aveva messo sotto accusa i curanti che avevano fino ad allora evitato di condividere la diagnosi della figlia e di spiegare quello che considerava il fallimento delle cure. Anche la figlia si era espressa negli stessi termini. Una seconda madre, sulla stessa lunghezza d’onda, aveva riportato il fallimento delle cure della propria figlia all’abbandono della famiglia da parte del marito di fronte ad un grave problema di salute, e alla inadeguatezza dei curanti, impreparati e in servizi disorganizzati.
Un conduttore, Andrea Narracci, aveva ripreso l’intervento della prima madre per invitare a riportare al centro del discorso la riflessione sulle difficoltà personali e su quelle della rete familiare. Soffermarsi sull’esterno al gruppo, accusare il personale dei servizi del persistere delle condizioni patologiche salva la perfezione delle relazioni familiari, impedisce l’esplorazione di ipotesi nuove, l’emergere di dubbi, il lavoro del gruppo. Il gruppo lavora sulle dinamiche proprie all’incontro, sul rispecchiamento e sul coinvolgimento, sul confronto delle proprie aspettative, sull’identificazione dei bisogni espressi da chi sta male e da chi cerca di partecipare al processo di cura.
Il lavoro di autoconoscenza nel gruppo di psicoanalisi multifamiliare
Un partecipante al gruppo, un padre è intervenuto per fermarlo perché, a suo avviso, Narracci non rispettava le regole del gruppo esprimendo la sua posizione sulle parole delle due madri. All’intervento del conduttore, propositivo e rispettoso delle regole che permettono di aprire il pensiero a nuove conoscenze, seguiva l’intervento di questo padre: di fronte alla malattia della figlia, al fallimento delle cure messe in atto fino a quel momento, al conseguente malessere provato come padre, aveva ricercato un aiuto e lo aveva trovato nella partecipazione ad un gruppo, “un cerchio”, in cui ognuno portava solo il proprio contributo di riflessione su di sé.
Questo lo aveva attivato in un lavoro di autoconoscenza, unico obiettivo del lavoro, che rimaneva scollegato al processo di accettazione della malattia e di partecipazione alle cure da parte della figlia. La sua chiusura alla proposta di lavorare assieme in gruppo è sembrata volere difendere il principio di autodeterminazione, la propria soluzione al dolore.
Imparare a mettere in discussione le proprie conoscenze
La lettura che ne abbiamo fatto nell’ateneo ci ha permesso di comprendere meglio quanto accaduto e di ricordarci che l’accettazione di una messa in discussione delle proprie conoscenze e del proprio modo per affrontare il dolore ha bisogno di tempi e di esperienze personali. Aprirsi precocemente ad un nuovo approccio può mettere in discussione la propria autodeterminazione e può risvegliare qualcosa di intollerabile.
Che familiari e pazienti vivano l’impossibilità di mettere in discussione il proprio esame di realtà e la propria personale soluzione al malessere è un dato di realtà ben conosciuto. Rispettarlo significa sapere che sono come una richiesta di avere tempi allungati e di passare per modalità di partecipazione alla cura meno traumatiche. Avevo fatto mio, all’inizio della mia attività lavorativa il suggerimento del primario, di pensare che spesso la malattia è il male minore e che per rispettare la profondità di questo limite occorre pensare che per il paziente è “meglio essere matto che morto”. Garcia Badaracco aveva confidato, dopo anni di esperienza, “Abbiamo il diritto di aprire la mente ai pazienti?” Perché percepiva che il processo di aprire la mente implica l’incontro con alcuni vissuti intensi che per molto tempo sono rimasti incapsulati come una protezione.