Vaso di Pandora

Tre passi verso il perdono

Restare legati alla rabbia e all’odio che abbiamo provato nel passato significa tenerli ancora vivi nel presente”. Con queste parole, lo psicologo e psicoterapeuta Luca Mazzucchelli ci invita a riflettere su un nodo centrale della nostra salute mentale: il perdono. Non come gesto formale o imposizione morale, ma come scelta profondamente liberatoria.

In effetti, trattenere dentro di sé il rancore è un processo attivo e costante che consuma energie. Più che proteggerci, ci appesantisce. Perdonare, invece, non è dimenticare né giustificare, ma “rilasciare”, come suggerisce l’etimologia latina della parola, il peso emotivo legato a un torto subito. È un dono che facciamo prima di tutto a noi stessi. Come disse Nelson Mandela: “Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che il perdono è un’arma potente”.

Il rancore è una trappola emotiva

Molte persone restano imprigionate per anni in dinamiche di rabbia e risentimento, spesso giustificandole con il bisogno di “non dimenticare”. Tuttavia, questa memoria emotiva ha un prezzo: mantiene vivo nel presente un dolore appartenente al passato. Ogni volta che riviviamo quell’evento, lo facciamo con la stessa intensità emotiva, come se stesse accadendo ora.

Non è l’evento in sé a ferirci ancora, ma il nostro modo di tenerlo vivo nella memoria. In questo senso, perdonare significa interrompere quel ciclo. È un atto di consapevolezza che trasforma la nostra relazione con il dolore.

Primo passo: la responsabilità emotiva

Il primo movimento verso il perdono è riconoscere che, anche se siamo stati feriti da altri, siamo noi oggi a rivivere e nutrire quelle emozioni. Questo non significa colpevolizzarsi, ma accettare che siamo responsabili di ciò che sentiamo nel presente.

Spesso ci aggrappiamo al dolore per cercare giustizia o rivalsa, ma così facendo ci ancoriamo a una dinamica sterile. Il perdono comincia con una presa di coscienza: possiamo scegliere come vivere oggi, indipendentemente da ciò che è accaduto ieri.

In questa fase è utile:

  • Osservare le proprie emozioni senza giudizio.
  • Riconoscere i pensieri ricorrenti legati all’evento.
  • Accettare che il cambiamento parte da noi, non dall’altro.

Secondo passo: l’empatia che disarma

Empatizzare con chi ci ha fatto del male è uno degli atti più difficili ma anche più trasformativi del percorso verso il perdono. Eckhart Tolle, scrittore e maestro spirituale, ci offre un’immagine potente: “Se il loro passato fosse il tuo passato, se il loro dolore fosse il tuo dolore […] allora tu penseresti e agiresti esattamente come fanno loro”.

Cosa ci sta dicendo? Che dietro ogni azione sbagliata c’è una storia, una fragilità, un livello di consapevolezza limitato. Questo non giustifica il male ricevuto, ma ci aiuta a depersonalizzarlo. Il torto, allora, smette di essere una ferita diretta al nostro valore e diventa il riflesso delle carenze dell’altro.

Empatizzare non significa negare il dolore provato, piuttosto che riavvicinarsi a chi ci ha ferito, se questo compromette la nostra serenità, tantomeno minimizzare l’accaduto. Significa invece vedere l’altro come un essere umano, non come un nemico, comprendere le sue limitazioni interiori, uscire dalla logica della vendetta e del castigo.

Terzo passo: un significato più grande

Silvia Mulas, scrittrice e mentor, invita a fare un ulteriore salto di prospettiva: vedere ciò che ci accade come qualcosa che “accade per noi”, non contro di noi. È una visione orientata alla crescita personale, che trasforma anche le esperienze più dolorose in occasioni di consapevolezza.

Il perdono, in quest’ottica, diventa un atto creativo. Smettiamo di restare vittime di ciò che è stato e iniziamo a costruire ciò che può essere. Ogni ferita può diventare una lezione, un’indicazione su ciò che desideriamo, su ciò che meritiamo, su ciò che vogliamo coltivare.

Il perdono non è debolezza

Spesso si tende ad associare il perdono alla resa, come se perdonare significasse cedere o abbassare la guardia. In realtà, il perdono è un atto di coraggio e lucidità. Richiede forza, presenza interiore, determinazione. È il contrario della passività.

Lo dimostra il modo in cui alcune figure pubbliche scelgono di affrontare il dolore. La cantante Shakira, ad esempio, ha trasformato la propria delusione in un brano che ha fatto il giro del mondo, incanalando la rabbia in creatività. È una forma di elaborazione che, seppur ancora distante dal perdono, testimonia il desiderio di non restare prigionieri del dolore.

Conclusioni: la libertà del perdono

Il perdono non è un punto d’arrivo, ma un processo che si costruisce nel tempo, spesso con fatica, ma anche con grande consapevolezza. È un gesto intimo, profondo, che ci invita a riprendere il controllo della nostra vita emotiva e a liberarci da ciò che ci trattiene nel passato. Perdonare non significa cancellare ciò che è stato, né tanto meno legittimare il dolore che abbiamo subito. Significa piuttosto trasformarlo, conferirgli un senso, lasciando che diventi parte della nostra storia senza più dominarla.

È una scelta che nasce dalla forza interiore, dalla comprensione della fragilità umana, e dalla volontà di crescere. In questo cammino, ogni passo compiuto verso il perdono è anche un passo verso una maggiore libertà personale, una forma di guarigione che ci restituisce a noi stessi, più leggeri, più presenti, più vivi.

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