“Così rinunziare alla propria autonomia diventa il mezzo
di salvaguardarla in segreto, e fare il morto
diventa il mezzo di conservare la vita”
(R.D. Laing, L’Io diviso, 1959, p. 45)
Un bozzolo nascosto alla luce, troppo spaventato per uscire a vedere il sole, troppo incerto per permettersi di toccare un’altra vita. Può questa definirsi esistenza o, forse, sopravvivenza?
Ronald Laing descrive la terra psicotica come il paesaggio più desolato del panorama umano: un individuo scisso, tragicamente frammentato da fissioni psichiche che ne determinano lo sperdimento; reduce di un conflitto fratricida ed intestino in cui è la stessa dimensione psichica ad essere, contemporaneamente, vittima e carnefice di sé.
Tale conflittualità intrinseca si riflette erroneamente nella realtà sociale che l’individuo abita: la dissonanza interna diviene oggetto costante di incursioni sociali atte a screditare una realtà che, per quanto alienata, non viene percepita come tale da chi la sperimenta. Di fatto spesso, nello strenuo tentativo di cura, si cede alla tentazione di invalidare la narrazione personale, profondamente soggettiva, del teatro psicotico.
Si dichiara piuttosto la propria verità, una verità ferrea, granitica, forte del consenso comune che ne fonda le basi e la tenacia. È così che si delinea chiaramente il frammentato, eppure incredibilmente reale, quadro psicotico: una realtà disgregata, vissuta con imperante osservanza che diviene tragicamente oggetto di miscredenza e cinismo da quanti osservano il mondo con occhi sgombri. In un teatro di violenza ove alle indicibili sofferenze fondanti la frammentazione psicotica si sommano atti di ladrocinio nei confronti di quella realtà, non compresa né accettata.
Colpevolmente, o ingenuamente, si alimenta una frammentazione strutturale che racchiude ogni ambito di esistenza e costringe l’individuo a rinunciare alla propria autonomia, alla propria fede, per preservare l’esistenza in un mondo condiviso.
Se ciò è vero sembra opportuno, se non necessario, indagare le radici profonde di tale duplice dicotomia. Ron Unger (2022) a tal proposito ipotizza che la condizione psicotica possa essere determinata da una mancata calibrazione delle strategie concorrenti di fede e scetticismo, due atteggiamenti complementari che si fondano e contemporaneamente definiscono il proprio rapporto con il mondo. Da questa prima e fondamentale assunzione è possibile impostare un’ulteriore riflessione.
Tali strategie, quando correttamente bilanciate, favoriscono lo sviluppo di una positiva osservanza della realtà sociale data da un costante processo di accomodamento tra il sé e l’altro: un equilibrio flessibile che quotidianamente si rinnova.
Tuttavia le stesse, e le loro dinamiche interazioni, possono essere irrimediabilmente interrotte: un’onta nell’incontro interumano, in cui la sconfinata fede di un bambino può essere tragicamente disattesa dalle persone che, di quel piccolo, avrebbero dovuto occuparsi. E non è forse questo il nucleo soggiacente la frammentazione psicotica?
Il dramma di un’esistenza che, prima ancora di essere vissuta, viene privata della sua continuità da mani trascuranti, abusanti, inevitabilmente compromesse e compromettenti. In tali condizioni la fede in altri occhi non può essere tollerata, un tradimento ancestrale che determina uno scetticismo così radicato da non poter essere scalfito dalle proteste sociali.
Qui, sulla scia di tale desolazione originaria, ha origine il duplice conflitto che caratterizzerà il vivere psicotico; una contesa scaturente da un vizio strutturale, intrinseco nella pratica psichiatrica. Nella spirale psicotica infatti l’uomo, oltre che essere vittima di una scissione psichica, è oggetto inerme di una costante invalidazione esterna utile a ridimensionare il valore della rosa di convinzioni che l’individuo porta con sé. Opinioni deliranti, allucinazioni bizzarre: questo è ciò che sono, dicono, ed è concettualmente vero.
Tuttavia può la loro natura insolita, estranea al senso comune, giustificare un loro così radicale ripudio? Debbono necessariamente essere considerati in termini prettamente privativi o possono forse essere osservati come strumenti funzionali ad un processo, con una loro dignità di esistenza contestuale?
Fintanto tali manifestazioni estreme verranno giudicate come alterazioni funzionali casuali, fino a quando saranno colpevolmente private del loro spessore ontologico ed esistenziale, l’urlo psicotico sarà irrimediabilmente relegato ai margini della comprensione umana a causa di una prudente cecità culturale. Sommando così violenza a violenza, laddove la stessa inosservanza del tormento e delle sue radici più profonde può considerarsi una colpevole omissione. I deliri, le allucinazioni potrebbero non essere considerati in senso prettamente patologico quanto adattivo.
Esse sono strategie limite, tanto necessarie quanto drammatiche, funzionali alla salvaguardia dell’integrità esistenziale di quanti, l’esistenza, non hanno avuto l’occasione di sperimentarla. Ignorando la qualità affettiva e contenutistica di tali manifestazioni il rischio è quello di rinchiudersi nella religiosa osservanza della verità condivisa.
Viceversa aprendo lo sguardo ad una realtà che, per quanto impalpabile, è talvolta la sola disponibile agli occhi psicotici, potrebbe essere possibile restituirle dignità di espressione, dignità di esistenza: contemplare un uomo aprirsi al mondo laddove prima, un mondo pronto ad accoglierlo, non c’era. In tal modo forse la fede frammentata fin dalla tenera età potrà essere progressivamente ripristinata; lo scetticismo che tragicamente ha accompagnato il suo vivere quotidiano, estraniandolo da sé stesso e dal mondo, potrà essere placato.
Uno sguardo per restituire spazio ad un’esperienza, ad un uomo, ad un dolore; per riconoscergli la facoltà di sperimentare apertamente, senza remore o giudizi, quel divario interno di cui è tragicamente vittima incolpevole. Ammettere la sua esistenza incondizionata, non vincolata ad un’ulteriore disperata scelta: fingersi morto per non morire. Solo così quel bozzolo nascosto alla luce potrà tornare a vedere il sole.
BION suggerisce che abbiamo bisogno ( specie noi psi.) di inventare una qualche forma di linguaggio articolato che possa avvicinarsi alla descrizione dell’ignoto che incontriamo con anima e corpo, cosi terrificante e che stimola sentimenti cosi potenti che non si può descrivere con le parole comuni.
Credo sia coraggioso tentare e provare, come ha fatto Laing, Papi e qualcun altro, risposta al terribile:<>
Crudele destino, grande sofferenza, impotenza frustrante e dolorosa che riesce a palatizzare le persone intorno! 😭