Le teorie complottiste, di cui si fa un gran parlare al giorno d’oggi, sono in realtà molto antiche. Negli ultimi tempi, stanno spuntando come funghi ed è proprio per questo che, piuttosto recentemente, la psicologia ha iniziato a occuparsene, studiandole in maniera seria e certosina. Secondo il ricercatore Ted Goertzel, esse non sono che spiegazioni riferite a gruppi segreti i quali lavorano nell’ombra, al fine di raggiungere obiettivi sinistri. Eventi come l’uccisione del presidente Kennedy, l’attentato a Trump o le scie rilasciate dagli aeromobili in cielo sarebbero tutte declinazioni di schemi più grandi, oscuri ai più perché qualcuno che opera nell’ombra vuole evitare di svelare i suoi piani. Le teorie del complotto, dunque, sono spiegazioni fuori dal comune, spesso piuttosto improbabili e talvolta ai limiti dell’assurdo. Ciononostante, vi è un numero davvero elevato di persone che ci crede, anche ciecamente, e non vuole sentire ragioni.
La psicologia dietro le teorie complottiste
Tutti i ricercatori che si sono occupati del complotto sono naturalmente partiti dalla medesima domanda: perché mai una parte minoritaria della popolazione crede alla teorie complottiste e addirittura le diffonde? Secondo lo psicologo Anthony Lantian, autore di un approfondimento dedicato per l’Associazione Psichiatrica Americana(APA), vi sono caratteristiche ben specifiche che descrivono e accomunano tutti coloro i quali credono a queste narrazioni. A suo avviso:
“Vi sono tratti della personalità comuni, come apertura all’esperienza, sfiducia, scarsa amicalità e machiavellismo. Tutti questi sono spesso associati alla credenze complottiste. Pensiamo alla scarsa amicalità. Gli psicologi definiscono questa caratteristica come il grado di affidabilità dell’individuo, che potremmo definire come disponibilità e cooperazione. Alcune persone dalla bassa amicalità non sono molto affidabili, gentili o cooperative. Il machiavellismo è quell’aspetto della personalità per cui una persona è particolarmente concentrata sui propri interessi e manipola, raggira o sfrutta gli altri per ottenere quello che vuole.”
“In termini di processi cognitivi, le persone con maggiori credenze complottiste sono più propense a sovrastimare la possibilità di eventi coincidenti. Non solo. Attribuiscono anche connessioni in maniera intenzionale, laddove a chiunque altro apparirebbero quantomeno improbabili e, tipicamente, dimostrano un livello piuttosto basso di pensiero analitico. Niente di tutto ciò è sorprendente. Non appena si inizia ad analizzare una situazione con fatti dimostrabili, solitamente emerge la teoria complottista in tutte le sue parti. Quel che la caratterizza è che nessuna di esse ha senso, se presa singolarmente.”
La fascinazione del cittadino verso il complotto, secondo Lantian, si basa sulla correlazione tra il suo desiderio di unicità – che è intrinseco in ogni persona, seppure in dosi differenti – e la volontà di raggiungerla distinguendosi dalla massa, dunque andando in direzione contraria, accettando opinioni e credenze meno comuni.
Il complottista si ritiene speciale
Chi crede nelle teorie complottiste si reputa il custode di un sapere raro. Ritiene infatti che le sue informazioni non siano soltanto più giuste di quelle del cittadino comune, ma anche meno convenzionali e non adatte a ogni orecchio. Queste narrazioni sono dunque considerate speciali, all’altezza soltanto di persone che possano esserne messe a conoscenza. Le teorie complottiste illudono chi le accetta, dandogli, o dandole, l’illusione che conosca la verità su eventi sociali o politici, quella che sfugge a tutti gli altri, meno acuti. In termini più psicologici, potremmo dire che chi crede ai complotti è vittima di un’idea troppo grandiosa del suo Io e soffre di narcisismo individuale. È all’interno dell’insieme dei complottisti che si reputa illuminato e idoneo a custodire quella verità che ai più è preclusa.
Solo gli alienati credono nelle teorie complottiste?
Un’ulteriore caratterizzazione di chi crede nelle teorie complottiste è quella descritta da Richard Moulding e il suo team di ricerca. Il suo studio risale al 2016 ed è stato pubblicato su Science Direct. Si mette qui in rilievo come sia sensibilmente più facile – seppure non necessario – per colui o colei che vede complotti ovunque, sentirsi abbandonato o isolato dalla società che lo circonda e provare anomia, ovvero mancato coinvolgimento dell’individuo nelle norme sociali della comunità che lo circonda. È tutt’altro che raro, per qualcuno distaccato dalle normative e le regolazioni dell’ordine sociale, aderire ai dettami cospirazionisti e avvicinarsi così al complottismo. Chi prova alienazione non farà alcuna difficoltà a rifiutare le spiegazioni convenzionali degli eventi e fidarsi di teorie parallele, per assurde e improbabili che siano.
Rifiutare la legittimità delle fonti di ogni spiegazione non è difficile per qualcuno che non si fidi di nessuno e ritenga che ci sia sempre chi si muove nell’ombra, pronto a rovinare la vita degli altri. Ciononostante, per quanto si rifiutano di ammetterlo, anche questi soggetti ricercano un’appartenenza a qualcosa di più grande di loro, per soddisfare il loro bisogno di comunità. È così che nascono i gruppi di negazionisti, dove ogni appartenente rinforza i sospetti e le credenze dell’altro.
Non di rado, anche gli impotenti si legano al cospirazionismo, dal momento che rappresenta per loro una valvola privilegiata per liberarsi della vergogna dovuta alla loro delicata situazione. Perché la cieca credenza nelle teorie del complottismo dà un senso di sicurezza e controllo sul mondo. Internet è un importante amplificatore di questa sottocultura. Le persone possono infatti diffondere grazie a quel medium le loro idee, oltre a rinforzarle ascoltando, e leggendo, quelle di altri.