C’è qualcosa nel mare che ci precede. Qualcosa di arcaico, indomabile, sacro. Le sue onde non obbediscono, non si fermano, non si lasciano possedere. Eppure, chi si avvicina al mare con rispetto, con ascolto, con fiducia, spesso ne esce trasformato.
Introduzione: il mare come bene comune, scuola di vita, orizzonte terapeutico
Il mare non è solo uno spazio fisico: è luogo dell’anima, confine del mondo, scuola senza lavagne. È lì che si impara a non avere il controllo, a respirare in attesa della prossima onda, a riconoscere i limiti e, nel farlo, scoprire nuove possibilità. La sua pedagogia è esigente ma silenziosa: non premia chi arriva primo, ma chi ascolta. Non esalta chi domina, ma chi si adatta.
Questa scuola antica la conoscono bene i giovani marinai dell’Amerigo Vespucci, gioiello della Marina Militare Italiana, che ancora oggi insegna ordine, bellezza e fratellanza sotto il profilo maestoso delle vele. E la conoscevano i ragazzi della nave scuola Garaventa, barca-rifugio per adolescenti fragili, che negli anni ’80 e ’90 solcava il Mar Ligure non per addestrare alla guerra, ma per educare alla libertà interiore, alla disciplina affettiva, al rispetto dell’altro e di sé.
Oggi, in quel solco nobile e concreto, molte realtà sociali e terapeutiche hanno riportato il mare al centro della cura. E le esperienze terapeutiche in mare si moltiplicano: per chi ha disturbi psichiatrici, per chi convive con una disabilità, per chi ha attraversato l’ombra e cerca un varco nella luce.
In questo viaggio raccontiamo tre esperienze. Tre gesti. Tre simboli. La barca a motore, la barca a vela, l’immersione subacquea. Tre modi di dire al mondo: “Ci sono”. E al dolore: “Non mi hai vinto”.
Il motore e l’orizzonte: respiro, accessibilità e libertà
La barca a motore è il primo passo. Quello che permette di rompere il confine del porto senza il timore di perdersi. È stabilità che accoglie, piattaforma sicura per chi porta nel corpo o nella mente le tracce di una storia difficile. Il rombo del motore, se lento e costante, può diventare un mantra. Le onde, lievi, cullano più che scuotere.
“Ricordo Manuela, che a terra leggermente assonata parlava con estrema difficoltà. Lo sguardo volutamente defilato ed una richiesta incessante: “voglio un caffè”. Quando siamo usciti dal porto, le ho chiesto: ‘Che cosa vedi?’. Lei ha alzato la testa, mi ha sorriso e ha detto: ‘Non c’è niente… ma è bellissimo’. Sorrideva con occhi socchiusi, cercando le carezze del sole sul viso.
Il mare qui è orizzonte e respiro. È luogo dove il silenzio non pesa, ma libera. Il paziente osserva, si lascia toccare dal vento, dallo spruzzo dell’acqua. Anche chi non può muoversi trova un senso diverso del movimento. Anche chi ha dimenticato il piacere dei sensi riscopre odori, vibrazioni, suoni.
Non è svago. È restituzione di sé stessi.
La vela: l’equilibrio tra ascolto e azione
La vela è il gesto della partecipazione. Non puoi startene fermo. Devi agire, ma con attenzione. Collaborare, ma senza prevaricare. Ogni movimento ha conseguenze. Ogni errore insegna. La vela non è semplicemente un mezzo per attraversare il mare: è un linguaggio. Navigare a vela richiede ascolto attivo dell’ambiente, gestione delle forze naturali, coordinazione fisica e mentale. Per questo, l’esperienza in barca a vela si configura come una vera e propria palestra di presenza, relazione e responsabilità.
A differenza della barca a motore, la vela impone un tempo più lento e insieme più attento. Il vento non si comanda. La barca va dove le correnti lasciano, e tocca imparare a fidarsi. Ogni partecipante ha una funzione precisa: chi tiene il timone, chi osserva le vele, chi regola le manovre. Questa dinamica di squadra è potentemente riabilitativa: persone con patologie psichiatriche o disabilità cognitive si sentono parte di un sistema vivo, in cui la propria presenza è necessaria e riconosciuta. Seguire una rotta, interpretare i segnali del vento, adattarsi ai cambiamenti meteorologici stimola le funzioni esecutive, spesso compromesse nei pazienti con disturbi neuropsichiatrici: attenzione, memoria di lavoro, pianificazione, flessibilità cognitiva. La vela insegna a non opporsi ma ad accompagnare. Molti pazienti raccontano l’esperienza come una metafora della loro condizione: non poter cambiare la direzione del vento, ma saper orientare le vele. Non c’è metafora più potente per chi lotta con limiti fisici o psichici, spesso vissuti come ingovernabili. La vela offre una nuova grammatica dell’adattamento: fluida, elegante, dignitosa.
La barca a vela è comunità mobile. Qui si sperimenta il senso del ruolo: piccolo, ma essenziale. Chiunque può contribuire: avvolgere una cima, osservare il cielo, tenere la rotta. Ogni gesto, se condiviso, diventa competenza. Ogni successo, per quanto minimo, è un trionfo sull’apatia.
La vela non perdona chi vuole fare da solo. Ma premia chi si affida.
L’immersione: il silenzio che cura, il mistero che accoglie
E poi c’è l’acqua profonda. L’immersione. Lì si scende. Si lascia tutto in superficie: i pensieri, le maschere, le diagnosi. E si entra in un mondo in cui il tempo cambia e il corpo galleggia come mai ha fatto sulla terra.
Ma l’acqua non accoglie solo i corpi. Accoglie lo stupore.
Appena si varca la soglia blu, il mondo si trasforma: i suoni si smorzano, i contorni si fanno più morbidi, e all’improvviso appare un universo silenzioso ma vibrante. I fondali svelano paesaggi lunari, praterie di posidonia, branchi di pesci argentei che danzano senza fretta. Le meduse pulsano come lanterne vive, le gorgonie si piegano come arbusti in sogno. I colori, filtrati dalla luce liquida, diventano pitture ad acqua: blu profondi, rossi smorzati, gialli che si accendono come fari nella nebbia.
C’è chi, la prima volta, piange dentro la maschera. Non per paura, ma per emozione. Perché nessuno li aveva avvertiti che esiste un altro mondo sotto quello che conosciamo. Un mondo che non chiede spiegazioni, che non giudica. Solo ti accoglie.
Sotto, non ci sono parole. Solo il respiro, lento, profondo. Un respiro che calma l’ansia, che regolarizza il ritmo interno, che impone di rallentare. È in quella lentezza che si fa spazio prima il pensiero rivelato poi attraverso la cura la guarigione.
Il corpo non è più un peso da trascinare, ma una vela da spiegare. L’acqua non è più elemento da temere, ma madre che accoglie. E il mondo sommerso, con la sua bellezza surreale, ricorda che c’è sempre qualcosa di più grande di noi… ma che dentro quel “più grande” c’è posto anche per noi.
Un grazie sentito a chi rende tutto questo possibile e realizzabile: Gianni, Fabio, Roberto, Daniela, Lorenzo, Roberto, Marica, Riccardo.
Gruppo La Redancia, Il Barattolo onlus, Consorzio Il Fiocco, KOS Group e Triton Diving Club
Bellissimo articolo 😊: riesce a restituire la magia del mare – in particolare delle immersioni, per me – non solo come esperienza sportiva o ricreativa, ma come metafora di cura, di accoglienza e di rinascita.