Vaso di Pandora

Siamo davvero liberi?

Qualche giorno fa sono andato ad assistere a un’interessante conferenza del professor Galimberti sul tema della libertà. Nel suo discorso, egli sosteneva che, in realtà, la libertà sia un’illusione, che non ne abbiamo alcuna e che siamo condannati ad agire sempre secondo la spinta di qualche altra forza, sia essa derivata dall’ambiente sociale o dall’inconscio. Secondo questa visione, noi esseri umani possediamo soltanto un’idea di libertà, che però non ha nulla a che fare con la reale capacità di scelta, poiché anche tutte le alternative che abbiamo di fronte sono sempre veicolate da qualcosa che proviene dall’esterno o che è determinato da forze che si muovono al di fuori dell’Io.

Libertà e fiducia nel futuro

In questo senso, continua il filosofo e psicoanalista, il paradigma giudaico-cristiano, legato alla fiducia nel futuro come veicolo di speranza, è tendenzialmente fallimentare, perché ci porta a trascurare il presente. Sarebbe meglio secondo la sua opinione utilizzare il vecchio paradigma degli antichi Greci, basato sulla ciclicità della natura e sull’uomo come semplice componente di questo ciclo al pari del resto del creato, piuttosto che indulgere in una visione antropocentrica che causa danni per via del bisogno degli uomini di credere in un futuro migliore – e nella possibilità di realizzarlo – a discapito del presente.

Il sunto di questo discorso, che per necessità di cose è sicuramente incompleto, mi trova tuttavia in parziale disaccordo: possiamo davvero dire che la speranza non esiste e che dobbiamo rassegnarci al tempo greco, fatto di ciclicità continue che si ripetono? Oppure abbiamo il diritto di sperare che in futuro le cose possano andare meglio, o che ci possa essere, in qualche modo, una forma di “salvezza”?

Nessuno è veramente libero

A mio avviso, è vero che nessuno di noi è veramente libero di operare qualsiasi scelta possibile, ma non vedo come questo possa rappresentare un limite per l’essere umano. Siamo un determinato tipo di animale con caratteristiche sia genetiche che psichiche ben definite e non possiamo uscire dai parametri della nostra biologia: ad esempio per quanto mi sforzi con l’allenamento, non riuscirò mai a farmi spuntare le ali, così come, per quanto possa impegnarmi, non riuscirò mai ad annullare la pulsione sessuale che caratterizza alcuni moti del mio inconscio. Posso sicuramente sublimarla, nell’arte o nella trascendenza, ma essa rimane comunque la stessa energia potente che mi spinge a ricercare uno dei miei simili per l’accoppiamento.

Noi siamo liberi in quanto animali specifici quali siamo, e anche la società che abbiamo creato a vari livelli è sempre frutto dell’interazione delle menti umane, e quindi, in qualche modo, ci rispecchia. Credo che, ancora una volta, il concetto di libertà venga frainteso con la libertà dell’Io, ovvero la nostra istanza totalmente conscia, quella che si trova a dover decidere nella vita di tutti i giorni e che utilizza il pensiero logico-razionale. Spesso, però, ci dimentichiamo che siamo l’intera psiche, non solo una sua parte.

Anche se le forze inconsce possono sembrarci aliene, esse in realtà ci appartengono e rappresentano i nostri desideri e le nostre scelte al pari delle istanze coscienti, anche quando non ne comprendiamo il senso. Realtà psichiche come il complesso edipico o la volontà di potenza possono non essere razionalmente comprensibili, ma fanno parte di noi allo stesso modo di una decisione ponderata su quale carriera universitaria intraprendere.

L’illusione della libertà e della speranza

Il discorso un po’ fatalista, secondo il quale la speranza sarebbe una sorta di illusione cognitiva, essendoci forze che continuamente ci spingono a scegliere al posto nostro, a mio parere non regge. Patrick Compton, filosofo americano, afferma che tali ragionamenti siano dovuti a quella che lui chiama “maledizione della conoscenza“, ovvero un atteggiamento iper-razionale, basato su un approccio alla realtà estremamente pragmatico, ma che finisce per precipitare l’essere umano nell’orrore esistenziale.

Il paradigma della liberazione dell’infinito

“Come si può”, egli dice provocatoriamente, “scegliere una forma di lettura della realtà se, dall’inizio dell’umanità, teologi, filosofi e scienziati non si mettono d’accordo neanche su cosa essa sia?”. Compton elabora quindi un paradigma chiamato “Liberazione dell’infinito”, nel quale sottolinea che le migliaia di filosofie della vita, dalle religioni ai sistemi politici fino alle costruzioni filosofiche, sono tutte valide, poiché, a causa del gap onto-epistemologico – ovvero la mancanza di una spiegazione dimostrata scientificamente sul senso della vita – qualsiasi di queste alternative ha la sua validità, di conseguenza può essere accolta e scelta dall’individuo, anche se la razionalità ci spinge verso discorsi estremamente pragmatici.

Sapere, ad esempio, di dover morire un giorno non esclude la speranza in una vita dopo la morte; così come assistere ogni giorno alla sistematica rovina del nostro ambiente per via delle attività umane non significa che non possiamo credere e impegnarci affinché, un giorno, la speranza di una consapevolezza maggiore possa portare alla salvezza dell’ecosistema. Jung, di fronte alla disperazione esistenziale, parlava della necessità di scoprire il senso soggettivo della propria esistenza, proprio per rispondere a quelle domande che la vita ci pone (e che noi poniamo a essa) e che, prima di morire, devono necessariamente ricevere una risposta.

Siamo veramente liberi?

Pertanto, anche supportato dal fatto che, nei drammatici eventi del suicidio, ciò che si evince molto spesso come fattore fondamentale è la perdita di speranza da parte di coloro che scelgono questa terribile soluzione ai loro problemi, ritengo che il professor Galimberti sia in errore nel sostenere che il paradigma giudaico-cristiano, basato sulla speranza nel domani, sia inferiore al paradigma greco, basato sulla ciclicità. La psicologia analitica pensa infatti che l’io, usando la metafora dello spettro elettromagnetico della luce, oscilli su un continuum che va da uno stato infrarosso, ovvero legato al corpo e agli istinti, a uno in ultravioletto, che è espressione del pensiero intellettuale e spirituale. Entrambi sono funzionali all’ esistenza dell’individuo ed entrambi contribuiscono al rapporto con l’esterno e con l’inconscio.

A mio avviso quindi il paradigma greco (infrarosso), sebbene interessante, è più vicino all’aspetto animale dell’uomo e deve essere integrato da una prospettiva teleologica – o ultravioletta, come quella del pensiero giudaico cristiano – pena la sopravvivenza fine a se stessa. Non c’è nulla di male nello sperare che possa esserci un futuro migliore di quello che stiamo vivendo oggi, a patto che ci impegniamo attivamente per costruirlo. E se poi, tra molti anni, dovessimo scoprire che le cose non sono andate come speravamo… ci inventeremo qualcosa, no?

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