Vaso di Pandora

Pregiudizio e sorpresa

Su segnalazione di un paziente ho visto la trasmissione televisiva “In altre parole” del 30/09/2023 che lo aveva molto commosso e che aveva sollecitato in lui associazioni utili nella difficile elaborazione di un doloroso ricordo dell’infanzia. Nella trasmissione aveva ritrovato aspetti, fino ad allora solo sfiorati nelle sedute, del suo rapporto con i genitori. Si trattava di ricordi ed emozioni che riconosceva alla base della propria tendenza alla ripetizione di un fallimento: ricercare amore da persone incapaci di amare. Di fronte ai fallimenti sentimentali si vedeva, inoltre, confermato nella colpa di essere lui stesso quello incapace di amare.

Un pescatore dilettante di Lampedusa, Vito Fiorino, si trova in barca, nel suo mare, il 3 ottobre 2013: è appena accaduto il naufragio con un numero elevato di migranti morti. Tra tutti gli aspetti della tragedia nella quale da testimone diventa faticosamente un protagonista, si sofferma sul rapporto che si instaura con i  naufraghi che riesce a salvare. Gli restano grati, lo chiamano “padre”, effondono “baci e abbracci”, restano in contatto e nel tempo, da lontano, lo aggiornano sulla loro vita da “salvati”.

Il pescatore resta turbato e sorpreso: cresciuto senza i baci dei suoi genitori si riscopre capace di un amore di cui non riusciva a capacitarsi. I commenti in studio sviluppano questa prospettiva: l’amore è naturale, è una dote congenita più che frutto della gratitudine dell’amore ricevuto.

La trasmissione televisiva ha ovviamente uno sviluppo affettivo, emotivo, di effetto, e in queste righe non voglio soffermarmi sull’aspetto culturale e politico della solidarietà e nemmeno sulla tragedia, la morte di 368 migranti, rimasta sullo sfondo della trasmissione televisiva.

Mi interessa ora associare a questa esperienza il superamento del pregiudizio, il passaggio dalla disattesa, mai baci e abbracci nella mia vita di figlio, alla sorpresa, alla scoperta, o riscoperta, di qualcosa ritenuto come mai sperimentato. Il pregiudizio ottunde la capacità esplorativa. Solo il cambiamento di prospettiva, come è accaduto per essere entrato in relazione con i “migranti”, vederli vittime di tragedie mortali, accogliere la loro gratitudine, ha permesso di avviare una esperienza nuova, un cambiamento nelle proprie certezze, sia verso gli altri che verso se stesso.

Nella trasmissione, il commento di Roberto Vecchioni, “è naturale amare”, esclamato all’interno di una contingenza emotiva intensa, rilancia il quesito su cosa impedisca di credere nelle proprie “potenzialità umane”. Interrogativo che si ripete in modo particolare quando ci si ritrova in situazioni nelle quali i partecipanti tendono a mantenersi in posizioni distanti, spesso svalutanti, vittimistiche, conflittuali.

Il lavoro psicoterapico ripropone continuamente questa dinamica: il paziente giovane accusa i genitori di non capirlo e i curanti di non crederlo. Spesso anche i familiari si muovono nella stessa lunghezza d’onda, simmetrici, portano dimostrazioni del loro amore non corrisposto, e spingono i curanti verso una lettura medica, “è tutto nella testa del paziente, c’è solo patologia”. 

La difficile apertura ad una prospettiva diversa, “c’è altro oltre quello che vedo” permette di cogliere la relazione, gli sconfinamenti tra i protagonisti di queste relazioni familiari. In questo modo si può entrare in contatto con un mondo che li accomuna, e si possono avvicinare gli elementi dolorosi sottostanti, silenti, e andare oltre la patologia manifesta.

Il paziente sta solo cercando di recuperare rabbiosamente quanto sente essergli stato sottratto? Si può fare qualcosa per introdurre cambiamenti nella relazione tra quanti si sentono vittime di traumi affettivi e quanti vengono identificati come traumatizzanti? Più in generale cosa rende un trauma così non elaborabile e capace di sovrastare le proprie potenzialità amorose?

L’ipotesi che mi ha sollecitato la trasmissione è che nell’attualità, qualcosa possa riaprire il contatto con eventi dolorosi precedenti: l’incontro attuale con traumi immensi, come l’incontro con la morte di tanti compagni di viaggio e le violenze subite, ha permesso di rimettere in discussione quanto ritenuto vero dei dolori precedenti e ha aperto ad una lettura nuova, in un orizzonte diverso. Ci può essere qualcosa che ci travalica oggi, qualcosa di antico, anche transgenerazionale: c’è qualcosa di più oltre quello che si muove per la nuova esperienza dolorosa. Torna il pensiero a quanti sono sopravvissuti a tragedie che hanno segnato in modo irreversibile la mente dei sopravvissuti, apparentemente accettato o rimasto incamerato nel mondo interno. Lo studio del transgenerazionale è cominciato dall’osservazione che traumi inenarrabili possono manifestarsi nelle generazioni successive, per lo più la seconda, nei figli dei figli.

Un’ipotesi che ho imparato a coltivare nei Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF) è che se si creano le condizioni di una riemersione di quanto è rimasto sottostante è possibile che le generazioni coinvolte avviino uno scambio utile a tornare sul punto di rottura nella relazione: riconoscere il trauma e esplorarne le sue radici, per dargli un nome, per condividerlo e renderlo accettabile. Il paziente con la sua follia può rappresentare la ripetizione delle onde del trauma e vuole segnalare che se si vede solo la sua follia, spesso inquadrata con il pregiudizio della distruttività, non si riconoscono i segni di una affannosa, mal organizzata attività, legata al fare i conti con elementi traumatici le cui radici possono essere fuori dalla sua mente.

Questa operazione può avvenire nei GPMF perché si attivano dinamiche nuove, allargate, diverse da quelle che può portare avanti una mente anche esperta e aperta: sono i rimandi di rispecchiamento, di investimenti proiettivi che attivano questa estensione e nel contempo questo approfondimento dei temi emergenti.

Verso la fine dell’intervista Pino Lucano annota che non aveva avuto con i suoi figli quell’interesse ai baci e agli abbracci che riconosceva naturali nel rapporto con i migranti salvati. La condizione nuova aveva attivato in lui un comportamento impensabile in precedenza.

Si può così immaginare allora, tornando al mondo dei conflitti insanabili legati alla follia di un membro della famiglia, che ci sia un’ipotesi alternativa a quella della distruttività.

Possiamo immaginare che siano presenti capacità di amore non sviluppate, annichilite, non rilevate per le conseguenze dei comportamenti aggressivi, devianti, distruttivi, intollerabili,  che producono sordità, pregiudizi.

Il lavoro dei curanti può deviare dall’obiettivo semplicistico di normalizzazione comportamentale, e spingersi nella lettura di dinamiche relazionali patologiche che vincolano in addolorate posizioni irrimediabilmente pregiudiziali. Si può uscire dal circolo vizioso della conferma di una naturale distruttività e mantenere viva l’ipotesi di una potenzialità amorosa inibita, “è naturale amare”. 

Con Paul Williams si può osservare come il bravo terapeuta sia capace, all’interno della sua relazione con il paziente, a sopravvivere e a fornire un rispettoso ascolto, un riconoscimento di quanto sommerso in un mondo di modalità intollerabili di relazione, prevaricazioni, intrusioni, abbandoni.

Così nei GPMF, di fronte al ripetersi delle denunce rabbiose dei figli ai genitori assenti, abbandonici, depressi, svalutanti, e alle simmetrie genitoriali, che vedono solo le delusioni prodotte dai figli e la frustrazione del loro amore non riconosciuto, è possibile andare oltre i comportamenti violenti, folli, inaccettabili, e spostare l’attenzione su quanto lega, ma resta sottostante, non espresso, non riconosciuto.

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