Commento all’articolo apparso sul Corriere della Sera il 9 luglio 2016
Ai tempi della ricerca della parità dei sessi siamo ancora qui a scrivere in cosa uomini e donne si differenziano, cercando la competizione e il primeggiare dell’uno sull’altro. Questa volta in tema di pianto. Quanto sono brave le donne a riconoscere le sfaccettature del pianto e a non farsi ingannare!
E’ vero, noi donne difficilmente ci caschiamo. Noi donne siamo abituate a piangere e a interpretare i pianti. Noi donne dobbiamo cogliere la minima differenza nel pianto del neonato per attribuirgli un significato, per rispondere al bisogno espresso, per cercare di essere delle madri “sufficientemente buone”. E forse è questo di cui tutti ci dobbiamo attrezzare: degli strumenti per cogliere il significato autentico e reale di ciò che in apparenza è uguale per tutti.
Secondo me il pianto, insieme al linguaggio, è ciò che distingue l’uomo dall’animale. Il linguaggio è comunicazione, così come il pianto è comunicazione. Comunicazione primitiva, vitale, il segno che il neonato è vivo appena esce dal ventre materno, maschio o femmina che sia. E’, in origine, la prima forma autentica di comunicazione, universale, indiscriminata e priva di retaggi culturali. Ma è una spontaneità che presto si perde, e che si plasma alla cultura di riferimento. Una cultura, la nostra, che premia poco ciò che è spontaneo enfatizzando valori quali la forza, la potenza, la supremazia, costi quel che costi. Volendo ben vedere, valori attribuiti al sesso maschile e che poco hanno a che fare con l’emotività e il pianto, attribuibili invece alla donna. Ma un uomo potente che piange è anche un uomo sensibile capace di comprendere ed empatizzare con le debolezze di noi “comuni mortali”. Uno a zero per lui. Ma la donna non ci casca. Uno pari palla al centro.
Forse, più che parlare delle differenze tra i sessi sul riconoscimento del pianto, ha più senso fermarsi a riflettere su quello che entrambi i sessi stanno perdendo: la fiducia nell’autenticità delle emozioni, oggi utilizzate come mezzo per raggiungere degli obiettivi più che come espressione comunicativa di un sentire.
Io sono la prima ad essere scettica sul pianto pubblico, finendo sempre per cedere al giudizio che “dietro le lacrime non sempre c’è la bontà”. Forse però dietro c’è sempre un bisogno, buono o cattivo, giusto o sbagliato che sia.
Gli adolescenti in comunità ce lo insegnano bene. Piangono, urlano, aggrediscono, si tagliano. E’ sempre una manifestazione autentica delle loro angosce? No. Spesso è una strategia per ottenere qualcosa. Ma quando il dolore e il pianto sono autentici (in pubblico o in privato) le differenze tra i sessi si appianano, lì siamo davvero tutti uguali… e si torna alle origini…