Estratto dal libro “La Fattoria Terapeutica. Interventi di psicoterapia residenziale” di Giovanni Giusto, Bruno Mondadori, 2019
Perché oltre.
Il discorso ha una coerenza con quanto proposto da me all’inizio del progetto di comunità terapeutiche del gruppo Redancia. Il riferimento che feci alla psichiatria a indirizzo psicodinamico e alla psichiatria sociale citava Zapparoli, Petrella e Conforto per l’una e Basaglia per l’altra. Soprattutto però mi riferivo alla necessità di proporre un modello tout court “dinamico”, ovvero che badasse costantemente a proporre cambiamenti in funzione dei bisogni dei pazienti e delle nuove proposte e risorse socioculturali e terapeutiche.
Appunto questo: avere presente la necessità di andare costantemente oltre il limite imposto dalle mode e dalle convenzioni, senza però correre il rischio di perdere il contatto con la realtà, è l’attualita.
Quando, incontrando Mark Spivak, elaborai lo schema di progetto terapeutico riabilitativo, secondo i cinque assi che caratterizzano oggi il Redancia System, introdussi il primo necessario cambiamento: passare da una fase narrativa, molto spesso autoreferenziale, a una controllabile attraverso dati e schemi che, però, non disconoscesse la prima, il riferimento a un modello cognitivo comportamentale che si integrasse con quello psicodinamico.
Gli elementi culturali e storici che caratterizzano la comunità terapeutica vengono descritti in altri capitoli, qui mi basta accennare alla critica radicale che Basaglia fece della comunità terapeutica come istituzione, che rischia di riproporre in maniera edulcorata modelli “statici” di intervento e, quindi, manicomiali; rischio sempre attuale che condivido.
Quando parlo di statico mi riferisco a un modo di lavorare in cui la relazione tra ospiti della comunità e curanti si caratterizza per abitudini, con il rischio di snaturare gli interventi terapeutici proposti, che si limitano alla gestione del quotidiano e all’intrattenimento creando delle interdipendenze difficilmente risolvibili. Quindi dei falsi clamorosi.
Una società che si basa più sull’apparire che sull’essere collude clamorosamente con questo.
Allora ho sentito la necessità di tornare alle origini, alla cultura contadina, al rapporto con la terra e le stagioni, con il sole e con la luna, con gli animali, e di proporla per un confronto sinergico con il modello originale delle comunità terapeutiche e quello a mio avviso sempre attuale del Kibbutz.
Ecco come nasce l’idea della Fattoria terapeutica che questo libro descrive.
Non si tratta di un fattoria sociale, non è una fattoria didattica e neppure un agriturismo.
E’ una struttura sanitaria ad alta specializzazione che intende proporsi come modello di cura residenziale per pazienti psichiatrici gravi in età giovanile affetti da disturbi di personalità e psicosi.
Il paziente che entra viene accolto dai curanti con i quali condivide un progetto terapeutico a termine: il periodo di cura non supererà in genere i 24 mesi di permanenza.
La struttura sarà dotata di ampi spazi esterni, utilizzabili sia per la cura degli animali sia per la coltivazione del terreno, che riferiscono alla cultura contadina: per questo motivo la Fattoria terapeutica sarà dotata della consulenza di un agronomo e di un veterinario.
Il direttore sanitario sarà un medico psichiatra e psicoterapeuta affiancato da una collega psicologo: sottolineo l’opportunità della coppia di genere diverso.
La grossa differenza sarà quella che i pazienti ricoverati nella Fattoria non dovranno lavorare ma, se vorranno, potranno assistere al lavoro che sarà svolto dagli operatori: in tal senso il modello del Kibbutz ci viene incontro.
La selezione del personale, che affronto nel capitolo successivo, dovrà pertanto essere accurata e determinerà il successo della proposta della Fattoria terapeutica.
Si capovolge quindi la consuetudine di un certo modo di fare psichiatria secondo il quale il lavoro cura e il paziente va fatto lavorare: la mia idea è che il paziente sia già ampiamente impegnato in un lavoro intenso, faticoso e spesso fallimentare per contenere le proprie angosce e che, solo se curato e liberato da esse, potrà successivamente essere avviato a una attività lavorativa tipica dell’essere adulto (per inciso lo stesso vale per l’attività sessuale).
Quindi i pazienti non dovranno lavorare ma essere curati secondo un modello di psicoterapia intensiva che proporremo alla vostra attenzione in altri capitoli del libro e che dovranno trovare nella Fattoria terapeutica il terreno “colturale” necessario all’attecchimento.
Il clima familiare che si creerà sarà esso stesso terapeutico e permetterà al paziente di imitare e identificarsi nell’operatore secondo un modo naturale e fisiologico di crescita.
Tanti i chiamati, pochi gli eletti: la selezione del personale
Il riferimento alla parabola di Gesù tramandata da Matteo, relativamente alla selezione del personale (fu la risposta che mi dette Spivak quando gli chiesi come scegliesse i collaboratori), che ora io faccio mia, potrebbe tradire una certa onnipotenza che, peraltro, ritengo implicita nella scelta di questo nostro lavoro: d’altronde chi, se non qualcuno con un progetto onnipotente o quantomeno molto ambizioso, si proporrebbe di cambiare “la testa e il cuore” di un altro individuo?
Comunque voglio partire da questo per affermare che non tutti possono fare questo lavoro: mi riferisco alla cura del paziente psichiatrico grave, ancorché laureati in medicina e specializzati in psichiatria o laureati in psicologia e specializzati in psicoterapia.
Le caratteristiche di chi lavora con noi nell’ambito di un progetto di psicoterapia residenziale devono essere valutate con attenzione e accuratezza e prescindono dai tradizionali colloqui attitudinali.
La scelta avviene valutando alcune qualità personali che sono: la curiosità, l’entusiasmo, la generosità, la capacità volitiva, la capacità di ascolto, la buona educazione, la capacità di riconoscenza e la fedeltà.
Partiamo dalla buona educazione, con questo mi riferisco alla capacità di relazionarsi opportunamente con il cliente essendo accogliente, gentile, premuroso e partecipativo.
Sono peculiarità personali che derivano anche da un apprendimento familiare, pertanto è opportuno avere una idea del tipo di famiglia da cui discende il possibile collaboratore, trattandosi il nostro di un lavoro in gruppo e col gruppo è importante capire l’ideologia familiare del candidato.
La curiosità: mi riferisco a quella che ritengo sia il motore principale del nostro lavoro; non una curiosità da gossip, certo, ma un desiderio genuino di conoscere le caratteristiche umane altrui confrontandole con le proprie nel rispetto assoluto delle differenze.
Entusiasmo significa letteralmente “avere Dio dentro”, essere in altre parole proattivo e propositivo nell’affrontare le inevitabili difficoltà che si incontrano nel nostro operare quotidiano; una persona entusiasta è in grado di coinvolgere l’altro senza perdere di vista la realtà.
La volontà è relativa alla capacità di dare continuità al proprio intervento sopportandone il peso; consente di tollerare la fatica inevitabile nel prendersi cura della sofferenza psichica altrui e fa riferimento alla capacità di tenuta e alla possibilità, quindi, di mantenere le promesse.
L’ascolto è fondamentale in psicoterapia ed è la base della comprensione (prendere insieme) altrui, è un esercizio che richiede molta pazienza e attenzione, oltre che una predisposizione a non essere inutilmente protagonista.
La generosità: in un altro scritto ho parlato di trasfusione di umanità facendo riferimento a una immagine medica, la trasfusione appunto, per indicare la necessità di essere disponibili a donare (ecco la generosità) all’altro non tanto il sangue come nelle trasfusioni vere e proprie quanto il proprio Sé, al fine di consentire la sopravvivenza psichica del nostro paziente.
La fedeltà: è indispensabile non tradire le aspettative di chi si affida a noi e bisogna farlo avendo consapevolezza di essere parte di un gruppo di lavoro, che ha uno stile preciso e che comunica costantemente in modo diretto e circolare.
La riconoscenza: ha a che vedere con l’essere adulto e capace di distinguere sé dall’altro e di dialogare proficuamente in modo da favorire la crescita reciproca.
Come appare evidente queste caratteristiche restringono molto il campione di chi si proponga per curare i pazienti in una situazione di comunità terapeutica e ancora di più per la Fattoria terapeutica che, evidentemente, richiede una grande disponibilità a permeare la propria esistenza con il lavoro.
La richiesta è quella di un coinvolgimento forte, in una dimensione che il Kibbutz rappresenta sufficientemente ma non del tutto, e implica la disponibilità affettiva e ideologica a confrontarsi con un ambiente molto particolare, senza perdere di vista il fatto che si tratta di una struttura sanitaria.
Elemento forte della Fattoria terapeutica sarà il confronto tra le competenze dell’agronomo, del veterinario e degli psicoterapeuti-contadini.
Penso che sarà un’esperienza arricchente e gratificante che, però, non dovrà protrarsi all’infinito.
Apprendere dall’esperienza e ripiegare il proprio pensiero a partire da essa è la nostra stella polare in questa navigazione che continua…