Vaso di Pandora

Estratto dal libro “Comunità terapeutiche. Storie di lavoro quotidiano”

In seconda media ebbi il pensiero lucidissimo di voler diventare medico, quando conobbi la storia del dott. Albert Schweitzer, in particolare un pensiero scritto nel suo libro “Rispetto per la vita; personalità di spicco”, famoso in Francia e in Germania per le sue conoscenze nel campo della musica organistica, della filosofia e della teologia, già in età avanzata, decise di diventare medico e partire in missione verso le terre più remote dell’Africa:

“Portavo in me già da lungo tempo il progetto che stavo per mettere in atto. La sua origine risaliva ai miei anni di studente. Mi riusciva incomprensibile che io potessi vivere una vita fortunata, mentre vedevo intorno a me così tanti uomini afflitti da ansie e dolori. Mi aggrediva il pensiero che questa fortuna non fosse una cosa ovvia, ma che dovessi dare qualcosa in cambio”.

La mia scelta professionale proseguì senza alcuna esitazione per tutti gli anni della gioventù, fino all’ultimo anno del corso di laurea, quando si presentò l’esigenza di scegliere la scuola di specialità. La chiarezza nitida, che mi aveva guidato fino a quel momento, divenne una nebbia insondabile, di fronte alla scelta della specialità dopo la laurea. Sul retro della copertina del libro di fisiologia cominciai a scrivere le specialità mediche che avrei senz’altro escluso e, al primo posto di questa colonna, scrissi “Psichiatria”. M’iscrissi a Endocrinologia, completai gli studi, conseguii la specialità.

Nel frattempo cercavo di guadagnare qualcosa, mi barcamenavo tra visite fiscali, prelievi e turni notturni. Mi capitò l’occasione di coprire qualche turno qua e là nelle strutture che avevano bisogno di una guardia medica, fra queste la Comunità Terapeutica “La Redancia” di Alpicella. Fui chiamato a fare una sostituzione di un altro medico che aveva avuto un impedimento: ero molto preoccupato, perché avrei dovuto coprire il turno da solo e non conoscevo nulla di psichiatria. Caricai la mia vettura di alcuni libri di consultazione, piegai il camice dentro una valigetta ventiquattrore, controllai di avere le borse in ordine, andai a comprare un pallone Ambu in una farmacia e partii alla ricerca di questa comunità. Faticai non poco a trovarla, cercavo qualcosa che assomigliasse a una clinica, a una casa di cura, a un ospedale, percorsi più volte la strada che da Alpicella conduce al Monte Beigua, senza trovare nulla di simile a quello che cercavo. Finalmente scesi dalla macchina e mi misi a cercare a piedi il numero civico, trovai una comunissima casupola in una curva, suonai per chiedere informazioni, ma non mi rispose nessuno. Sulla porta c’era un foglio appeso con dello scotch: “Siamo a mangiare la pizza, arriviamo un po’ più tardi”.

Il mio esordio nel mondo della psichiatria è stato l’attesa, di fronte ad una porta chiusa, che i pazienti tornassero dalla pizzeria. Quando finalmente tornarono, mi presentai, un’infermiera si scusò per il ritardo, mi diede qualche informazione, mi rassicurò, mi fece vedere i numeri che avrei dovuto chiamare in caso di bisogno e se ne andò. I pazienti erano tutti piuttosto stanchi, si ritirarono quasi subito nelle loro stanze, uno mi disse “Tu dormi Iì”. Io francamente non credevo di poter dormire, in effetti, avevo preventivato di studiare il manuale del Pronto Intervento, per essere meno impreparato a gestire tutti gli eventi che sicuramente sarebbero accaduti. Quel paziente, che era rimasto sveglio, e che si chiamava Mimmo, comprese le mie tribolazioni, mi raccontò a lungo gran parte del suo modo di intendere la vita, vegliò con me, mi preparò un po’ di latte caldo, mi tranquillizzò. Il camice rimase nella valigetta, il libro chiuso nello zaino, il pallone Ambu nel bagagliaio della vettura, verso l’alba effettivamente mi addormentai.

Compresi cos’è una comunità terapeutica, perché ne avevo fatto esperienza: ero entrato ansioso e sofferente e sono stato curato, prima da un’infermiera esperta e poi da un paziente loquace e gentile, ero tribolato da penosi pensieri, che si affollavano disordinati nella mia mente e sono stato rassicurato, fino ad addormentarmi tranquillo. Capii subito che le relazioni. con i pazienti nella comunità non erano così asimmetriche, come quelle che avevo osservato fino a quel giorno, quando giravo per i reparti delle cliniche universitarie: uno stuolo di camici bianchi, dietro a un professore illuminato dalla conoscenza, tutti intorno ad un paziente col pigiama, chiaramente ammalato e bisognoso.

Le prime parole che ho ascoltato in comunità sono state quelle di un paziente, che mi ha indicato dove avrei dovuto dormire, poi, vedendomi in difficoltà, mi ha tenuto compagnia.

Nelle settimane successive conobbi un modo diverso di essere medico: quasi a niente mi servivano le informazioni e le nozioni che avevo acquisito nei libri. Nemmeno gli strumenti che abitualmente definiscono il ruolo – il camice, il timbro, la scrivania – mi erano di grande aiuto. C’erano uno spazio informale e un tempo sospeso, in una casa da abitare per la durata di un turno, insieme con altri che, quella stessa casa, la abitavano già. Le nozioni, i libri, persino i farmaci non mi servivano granché, la cura doveva passare attraverso strumenti che ancora non conoscevo, forse le parole, forse alcuni gesti, in definitiva attraverso il mio modo di pormi, di relazionarmi, il mio modo di essere. Pian piano compresi che, durante i miei turni di notte, la cura ero io, io inteso come persona, e che per essere una cura efficace dovevo, prima di tutto, diventare un uomo migliore.

Il primo farmaco che ho imparato a usare è stato il Gutron, perché uno psichiatra più esperto, cui avevo dato il cambio per il turno della notte, mi aveva detto che qualche volta i farmaci, quelli che prescriveva lui, potevano causare ipotensione. Ne approfittai: finalmente avevo uno strumento per misurare la sofferenza – lo sfigmomanometro – e un farmaco per poterla alleviare e questo mi rassicurava, mi dava l’impressione di ristabilire i confini. Anche i pazienti ne approfittarono, vennero in molti a farsi misurare la pressione e, già che c’erano, a farsi dare una controllatina, una specie di tagliando generale.

Non tardai a rendermi conto che i pazienti si adattavano un po a parlare la mia lingua, ma che perlopiù non avevano alcun bisogno reale né di essere visitati, né di essere curati con le medicine che gli consigliavo.

Continuando a frequentare la comunità, potei osservare che altri operatori usavano strumenti e sostanze molto diversi dai miei strumenti e dalle medicine, ma che erano altrettanto efficaci, per esempio c’era un infermiere che faceva dei lavori di falegnameria con alcuni pazienti e c’era un bravissimo ceramista, che lavorava la terra con loro. Gli attrezzi da falegname, la creta, lo sfigmomanometro e i farmaci avevano evidentemente qualcosa in comune, non erano la cura, bensì strumenti per stare con i pazienti e provare a entrare in relazione con loro, cercando di essere d’aiuto. In quei primi anni si cominciò a parlare di “trasfusione d’umanità”, un costrutto psicologico che definisce l’essenza delle relazioni di cura, ossia la disponibilità di chi si propone in una relazione d’aiuto, a donare una parte salutare di sé ad altre persone, che hanno avuto l’esistenza travagliata, per via della malattia, e contrassegnata da rotture, abbandoni e separazioni traumatiche, dai loro cari e dai loro amici.

Per tirare le somme, alla fine sono rimasto intrappolato in questa storia, mi sono iscritto a una seconda specialità e sono diventato psichiatra.

Ora ho cinquant’anni; lavorando anche con pazienti anziani ho rivalutato molto le conoscenze mediche, perché ho visto che anche il corpo dei pazienti, non solo l’anima, è fragile e ho dovuto rivalutare anche le medicine, che è necessario conoscere e impiegare con criterio e con dovizia.

Tuttavia quei primi anni trascorsi a condividere un tempo sospeso nello spazio indefinito della comunità hanno segnato il mio modo di interpretare la professione e non ho mai smesso di pensare che, per essere un bravo medico, debba ancora oggi, prima di tutto, cercare ogni giorno di essere un uomo migliore.

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Commenti su "Estratto dal libro “Comunità terapeutiche. Storie di lavoro quotidiano”"

  1. direi la persona eticamente corretta e sensibile che sei Dario….. ! Anche quando difendi con forza i tuoi punti di vista le tue idee nate sempre dalla tua volontà di essere il più possibile un bravo medico. Grazie

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