Ieri, nell’importante e bello incontro sulla psicanalisi multifamiliare qualcuno ha dubitato che sia appropriato parlare di psicoanalisi; credo con fondamento. In effetti, almeno per i non esperti come me, c’è da chiedersi quanto sia in questa prassi lo spazio per il “capire” psicanalitico e quanto per la dimensione, altrettanto importante, della condivisione, dello “stare insieme”, della relativizzazione di quei ruoli che a volte divengono una gabbia o un muro. Quest’ultimo aspetto è utile quanto non semplice, perché può incontrare resistenze: sappiamo quanto forte sia il bisogno di distinguerci dai “matti”. Un ricordo personale: già ai tempi dell’Ospedale Psichiatrico, in un benintenzionato quanto ingenuo tentativo di riunione di équipe cercavamo altrettanto ingenuamente di evidenziare alcune dinamiche “controtransferali” (in senso lato, ovvio). Un’infermiera è sbottata: “Megu, nun semu marotte!”).
Un bel po’ di acqua è passata sotto i ponti, e i relatori di ieri ci hanno dimostrato come hanno efficacemente gestito questo problema.
Se poi, come credo, il “capire” resta importante, penso sia un compito non semplice nel contesto proposto, in cui si intreccia una serie di relazionalità: fra il paziente e la famiglia, fra le varie famiglie coinvolte, fra pazienti e famiglie con gli operatori, all’interno dello staff…
Ma va ricordato che tutto ciò preesiste all’intervento suggerito: questo non lo crea ma lo evidenzia e ne facilita il manifestarsi, con evidente possibile ricaduta di cura.
Il clima confidenziale .la assenza di giudizio,la condivisione,il risoecchoamento in definitiva il dialogo e il riconoscimento di sè da parte degli altri……..poco conta se sia psicoanalisi o altro.
Senz’altro come nelle nostre comunità è un tentativo di umanizzare l’intervento psichiatrico per cui è necessario lasciarsi coinvolgere senza timore di confondersi