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L’intelligenza artificiale in psicoterapia: limiti, possibilità e derive

Gli articoli “Io, psicologo in analisi da ChatGPT” di Harvey Lieberman e “Ma ChatGPT non può curare la nostra anima” di Umberto Galimberti, entrambi pubblicati su la Repubblica, trattano del possibile uso delle Chat IA in ambito psicoterapico, seppur con punti di vista differenti.

Il solo fatto che sia nata l’idea di utilizzare una chat automatizzata come supporto psicologico dice molto del nostro tempo. Rivela un bisogno diffuso, spesso non accolto dai servizi: il bisogno di ascolto, di riservatezza, di protezione. Ma anche un desiderio di rifugio, che nel mondo virtuale trova un terreno fertile. Qui, tuttavia, il rischio è quello di un ritorno regressivo, di una chiusura in se stessi, simile allo stato uroborico descritto da Neumann: un circuito chiuso che si autoalimenta, senza un reale incontro con l’altro.

Limiti e criticità

Una chat IA, per quanto evoluta, non fa che raccogliere parole e restituire parole. Non percepisce il gesto, il silenzio, il tono della voce. Non vede il corpo, non sente l’affetto, non coglie l’inconscio.

Il terapeuta, al contrario, porta con sé la propria storia, la conoscenza dei propri limiti, delle proprie difese e delle proprie ombre. Porta la capacità di tollerare l’incertezza, di sostare nell’ambiguità, di non dare risposte preconfezionate.

La macchina tende invece a mostrarsi sicura, compiacente, rassicurante. In questo modo rischia di alimentare le illusioni narcisistiche dell’utente, di rafforzarne il falso sé, di creare un dialogo sterile con la propria maschera. Si tratta di una verità apparente, che placa ma non trasforma, che conforta ma non apre a un reale processo di individuazione.

Fromm: la fuga nella tecnocrazia

Fromm ci ha insegnato che l’uomo, di fronte all’angoscia della libertà, tende a rifugiarsi in sistemi che riducono l’incertezza. La tecnocrazia diventa allora una nuova religione, che promette sicurezza in cambio di passività.

La chat IA, se usata come surrogato di psicoterapia, incarna proprio questo rischio: anestetizzare il dolore con risposte uniformi, sostituire la ricerca viva con un sapere morto, trasformare la fatica del diventare sé stessi in un consumo rapido di frasi rassicuranti.

Nietzsche: la morale del gregge digitale

Nietzsche parlava della morale di gregge come del bisogno umano di rifugiarsi in verità condivise, per evitare il peso di inventarsi da soli la propria strada.

L’IA, nel suo funzionamento, tende inevitabilmente a standardizzare: produce ciò che è più probabile, ciò che sta al centro della distribuzione. È, per natura, una macchina del consenso. Affidarsi a essa come guida significa rischiare un appiattimento, una rinuncia al compito più arduo: diventare creatori della propria vita.

Potenzialità e ambivalenze

Eppure sarebbe superficiale liquidare l’IA come puro inganno. C’è in essa una novità che merita attenzione: la capacità di dialogare in modo fluido su qualsiasi tema, di accumulare e rielaborare enormi quantità di sapere umano. In un certo senso, le chat hanno già iniziato a costruire un’enciclopedia collettiva, una memoria in divenire del linguaggio e delle esperienze.

Questa funzione può essere utile: come primo contatto per chi non si sente pronto a una terapia tradizionale, come strumento di orientamento, come archivio dinamico di conoscenze condivise. Simbolicamente, potremmo leggerla come un embrione di “conscio collettivo” digitale, un’eco deformata ma significativa di quell’inconscio collettivo di cui parlava Jung.

L’intelligenza artificiale in psicoterapia: conclusione

Il rapporto tra psicoterapia e IA rimane dunque ambivalente. Da un lato, il rischio di chiudersi in un dialogo sterile con il proprio riflesso digitale, di lasciarsi addormentare da risposte standardizzate, di perdere la tensione creativa verso il nuovo. Dall’altro, la possibilità di aprire spazi di accesso, di raccogliere e ordinare il sapere, di offrire un supporto immediato a chi altrimenti resterebbe solo.

Ma la psicoterapia, intesa come incontro vivo e trasformativo, resta un fatto umano. È l’incontro con l’altro – con il suo corpo, con la sua voce, con la sua ombra – a generare la possibilità di cambiamento.

La macchina può forse accompagnare, sostenere, preparare. Ma non può sostituire ciò che accade quando due esseri umani si incontrano davvero, e qualcosa di nuovo, di imprevisto, prende forma.

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