Nella puntata del 2 novembre della trasmissione televisiva: “Delitti in famiglia”, è stato raccontata la storia di Luca Delfino.
Io penso che vada fatta una distinzione tra una storia e il modo di raccontarla.
Il racconto a cui la trasmissione ha dato luogo non mi è sembrato del tutto equilibrato.
Cercherò di spiegare perché mi sono fatto questa opinione.
Le difficoltà del caso di Luca Delfino
Il caso è particolarmente difficile da prendere in esame.
Io penso che, in una situazione di questo tipo, vadano tenuti nella giusta considerazione, da un lato i pareri dei rappresentanti delle Istituzioni che si sono occupate del caso, mi riferisco alla Polizia, alla Magistratura, agli Avvocati, ai Periti del Tribunale e ai Medici e Psicologi della Rems a cui è attualmente affidato il Delfino, dall’altro a quelle dei familiari delle vittime e dei giornalisti che si sono occupati del caso.
A mio parere, viceversa, nella trasmissione, è stato dato uno spazio molto ampio ai sentimenti dei familiari e degli avvocati difensori rispetto a quello di tutte le altre categorie. Tanto che, alla fine, il messaggio, che mi sembra sia stato sottolineato con maggiore chiarezza, sia stato quello che Delfino seguiterà ad essere pericoloso, anche dopo gli anni che trascorrerà presso la Rems, dove è stato trasferito dopo avere scontato la pena, prevista dalla sentenza definitiva comminatagli dai giudici, in carcere.
Mi sono chiesto: perché costruire un programma con la finalità di mettere in risalto il parere dei familiari e degli avvocati delle vittime in una situazione in cui l’imputato ha subito un regolare processo?
L’importanza sella divisione dei poteri
Io penso che il fine ultimo di chi ha confezionato il programma sia di far passare l’idea che certi individui sarebbe opportuno che rimanessero in prigione o, meglio, visto che non sono imputabili, in un reparto psichiatrico per autori di reato (Rems) a vita.
Ma torniamo a Delfino. A me il modo in cui è stato raccontato fa venire in mente che in Italia tendiamo a non riconoscere l’importanza che si merita alla divisione dei poteri: legislativo, di governo e della magistratura e che, viceversa, ognuno può ergersi a giudice, dichiarando, di converso, la totale incapacità di chi è preposto a svolgere la funzione giudicante.
Perché, nella trasmissione non sono stati intervistati psichiatri e psicologi portatori, magari, di opinioni diverse in merito al venirsi a verificare di fatti di sangue tra persone tra cui intercorrono o erano intercorsi legami di amore?
Siamo del tutto sicuri che il problema dei “femminicidi” sia pensabile esclusivamente nei termini di un problema che insorge nella stragrande maggioranza in una persona soltanto, generalmente un uomo? Oppure possiamo ipotizzare che si tratti di una problematica in cui sono coinvolte due persone e provare a prenderlo in considerazione anche da questo punto di vista? Oltre che dall’altro. Dato che la responsabilità di quello che accade è fuori discussione che sia personale, di chi la compie.
Una lettura dei fatti unica
Perché in una trasmissione del genere si parte da un’unica lettura dei fatti: e, cioè, che l’uomo non accetta di perdere il controllo sulla donna e non si prova nemmeno ad ipotizzare una maggiore complessità tra le ipotesi esplicative dei fatti?
Capisco che è difficile anche solo pensarlo: ma se il problema fosse costituito dal tipo di legame che si instaura tra l’uomo e la donna?
Siamo d’accordo che Delfino fosse portatore di una patologia gravissima, caratterizzata dal fatto di pensare alla propria compagna come ad una parte di sé, piuttosto che ad un’altra persona che, comunque, non giustifica minimamente quello che ha fatto.
Ma non è che anche la donna fosse, seppure in una forma che non la porta a compiere atti aggressivi, attestata su posizioni non dissimili, per quanto riguarda il rapporto con l’altro? Cioè che, in cuor suo, fosse orientata più a cercare di fare essere l’altro come lei avrebbe voluto che fosse, piuttosto che riuscire ad accettarlo per quello che era?
Le responsabilità di Luca Delfino
Le responsabilità di aver nuociuto restano sempre di chi le ha commesse.
Però, provare a rendersi conto che la costruzione di un legame patologico non dipende solo da uno dei due partecipanti al rapporto, a mio parere, offrirebbe delle possibilità in più per prevenire che si verifichino.
Dove ci porta, però, seguitare a pensare che c’è qualcuno che è sbagliato e va estromesso dalla Società? E dove potrebbe portarci una visione più articolata che riesce a cominciare a chiedersi che, forse, per uscirne, dovremmo cominciare ad avere il coraggio di guardare che “nella sequenza di eventi che si mettono in moto” ci sono due persone, con responsabilità diverse, di cui uno passa all’azione, e l’altra no, ma che, per prevenirne l’ennesima riedizione, bisognerebbe impostare un lavoro in cui coinvolgere entrambi.
La convinzione di avere a che fare con un altro “a cui si può imporre che cosa penso io”, potrebbe aiutarci a costruire delle situazioni di intervento a monte del verificarsi delle situazioni tragiche che, poi ci troviamo di fronte.
Il taglio della trasmissione mi ha fatto andare con la memoria al commento del Ministro dei Trasporti e Vice-Presidente del Consiglio che, armato di “carità cristiana”, dato che generalmente esibisce il Rosario nelle manifestazioni pubbliche, non ha potuto fare a meno di pronunciare: “Non ci mancherai”, a proposito di un povero cristo, immigrato che, in primo luogo avrebbe meritato di essere trattato come un malato grave, quale era, piuttosto che un individuo pericoloso da eliminare, all’americana, come è avvenuto. Infatti, è stato ucciso invece che immobilizzato e curato, a Milano, circa un mese fa.