A proposito dell’articolo a firma di Camillo Langone, comparso il 10 luglio 2025 sul quotidiano “Il Foglio”, vorrei esprimere il mio rincrescimento per come l’Autore interviene a proposito della Legge Basaglia, che nel 1978 ha condotto, da subito, al divieto di far accedere nuovi pazienti negli Ospedali Psichiatrici, fino alla chiusura progressiva degli OOPP, delegando contemporaneamente alle Regioni l’organizzazione di una rete di Servizi Territoriali, volti a fornire assistenza e cura ai malati psichiatrici, in alternativa agli Ospedali Psichiatrici stessi.
Fino a quel momento gli OOPP avevano costituito la cosiddetta risposta terapeutica alle malattie mentali. Il problema che si era venuto a creare, secondo Basaglia e i suoi seguaci, era costituito dal fatto che l’OP, da luogo di cura, si era trasformato in luogo di detenzione e di imbarbarimento e che, pertanto, andasse chiuso.
Cosa dice Camillo Langone
Ora Camillo Langone ci spiega che, così facendo, la Legge Basaglia ha attribuito tutto il peso dell’assistenza e della cura dei pazienti psichiatrici ai familiari.
Pertanto chiede che vengano riaperti i manicomi, con il fine di redistribuire il peso dell’assistenza che, attualmente, pesa principalmente sulle famiglie, trasferendolo sugli Ospedali Psichiatrici stessi.
Dicendo che procedere in questo modo renderebbe meno gravoso per tutte le persone coinvolte, a cominciare dai familiari stretti del malato, seguitare a vivere.
Secondo lui, se si facesse in questo modo, starebbero meglio tutti.
Il mio pensiero riguardo la riapertura dei manicomi
Io credo che questa affermazione sia errata in primo luogo dal punto di vista umano: visto che i pazienti starebbero sicuramente molto peggio di come stanno adesso, se fossero nuovamente segregati nei manicomi. E che lo sia dal punto di vista scientifico, in particolare per quanto riguarda gli apporti derivanti dagli studi neuro-scientifici degli ultimi trenta anni.
In base a quanto brillantemente riassunto da Allan Schore, nel suo libro: “La psicoterapia con l’emisfero destro”, lo sviluppo equilibrato dell’uomo è legato al rapporto con il proprio care-giver, generalmente la mamma. In particolare si è potuto osservare che il rapporto è reciproco fin da quando il bambino ha due mesi e che la qualità del rapporto stesso si basa sugli scambi emotivi presenti tra i due in primis e, successivamente, anche del padre e che tutto ciò si svolge nei primi tre anni fondamentalmente in base alle emozioni che vengono scambiate tra le aree sottocorticali, l’amigdala in particolare e l’emisfero destro della madre e le aree corrispondenti del figlio.
Dunque i problemi mentali non stanno dentro una persona ma nel rapporto tra due persone.
Tanto che, per curare una persona, il suo terapeuta deve essere in grado di entrare in relazione con il paziente attraverso il proprio emisfero destro.
Tutto questo significa che pensare di risolvere il problema della malattia mentale attraverso il ricovero-segregazione dei pazienti in OP è profondamente antistorica.
Cinquanta anni fa, le psicoterapie, tra cui la psicoanalisi in primis, avevano sottolineato che la sofferenza mentale andasse inquadrata intersoggettivamente, sia per la sua comprensione, sia per la sua cura. Ma la psicoanalisi e le altre psicoterapie deducevano questa convinzione sulla base di evidenze cliniche. Oggi, dalle Neuroscienze sappiamo che le cose stanno così dal punto di vista scientifico.
Per questo riproporre una visione che la malattia mentale stia dentro una persona e che il miglior rimedio sia isolare il malato dalla società è privo di senso, oltre che antiquato e, dal punto di vista umano, ripugnante.
Non dovrebbe esser necessario ribadire queste cose basilari, fondamento di un approccio che voglia essere di cura. Ma temo che purtroppo lo sia.
Proprio perchè il disturbo mentale è cosa che ci riguarda, in quanto va letto (anche) come disturbo della relazione, ci coinvolge in modo angosciante, sollecitante (inevitabilmente?) una risposta scissionale. E’ forte la tentazione di allontanarlo considerandolo qualcosa che non ci riguarda, se non in una ottica di presunti benefattori. Per cancellarlo dalla consapevolezza, cosa di meglio che strutture ben chiuse?
Ciò, senza negare che l’occuparcene, sul piano pratico – curativo e su quello del collegato ‘incontro interpersonale, sia più faticoso.-
Non so davvero quale potrebbe essere il risultato di una eventuale referendum..
Credo anche che qualcosa di non molto diverso si manifesti nell’atteggiamento sulla immigrazione. L’invocare un drastico arginarla e possibilmente evitarla ha doppia radice: evitarci fatiche e disagi diretti, ma anche il confronto emotivo con un mondo “altro”, fatto di realtà disperate e disperanti