Intervista con il Dott. Luigi Boscolo e il Dott. Gian Franco Cecchin, Codirettori del Centro Milanese di Terapia della Famiglia
[Tratto da “Il Vaso di Pandora” – Vol. VI, n° 2, 1998].
Il giorno 12 di Gennaio 2015 è mancato il Dott. Luigi Boscolo a Milano dove risiedeva e dove aveva fondato insieme a Mara Selvini, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata il Centro per lo studio della Famiglia e, successivamente, a seguito della separazione del gruppo delle terapeute da quello dei terapeuti il Centro Milanese di Terapia della Famiglia che sarebbe rimasto nella sede storica di via Leopardi.
Nell’intervista che segue e che è accompagnata da una foto scattata a Pettenasco, sul lago d’Orta in occasione della celebrazione dei 25 anni di fondazione della scuola di psicoterapia del Centro Milanese si potranno leggere alcune idee più precise a riguardo del pensiero sistemico relazionale e dei punti di vista di Boscolo e Cecchin, oltre che della loro storia. Vorrei qui solo sottolineare alcuni elementi per inquadrare la figura di Luigi Boscolo, psichiatra e psicoterapeuta di fama internazionale.
Personalmente lo conobbi nel 1977 entrando a far parte di uno dei primissimi gruppi didattici che il Centro di Milano organizzò, infatti l’aspetto della formazione fu sviluppato da Boscolo e Cecchin, mentre Selvini, preferì occuparsi della ricerca, né mai partecipò in quell’epoca ai gruppi con gli allievi. Questa scissione credo che abbia avuto delle ricadute importanti in seguito sui modelli sviluppati dai due gruppi. Infatti partiti dal modello carismatico e quasi “taumaturgico” di “Paradosso e controparadosso” (il libro che li fece conoscere in tutto il mondo e che ancora gode di traduzioni in molte lingue) dove, bisogna ricordarlo, in un’epoca nella quale non si sapeva cosa fare con le anoressiche, ci si permetteva di sfidare il “buon senso“ di altri approcci terapeutici, con interventi provocatoriamente fuori dal “politicaly correct“ previsto, Boscolo e Cecchin ebbero l’intuizione di uscire dal setting del Centro privato, percepito come supercompetente dal cliente, per trasferirsi a osservare e supervisionare allievi che si dibattevano tra rigide regole di “ingaggio” nei vari servizi di salute mentale, consultori, poli antidroga e pazienti alquanto scalcinati e spesso poveri. Questo era coerente con l’idea centrale di G. Bateson di “un contesto come matrice di significati” e anche a seguito alla “umiltà conoscitiva” di ritenere importante nell’elaborazione delle ipotesi l’uso dei feed back degli allievi a scuola e nei loro contesti di lavoro il modello si sarebbe evoluto fino ad arrivare a quello definito nel campo sistemico come “Milan Approach”. In particolare Boscolo avrebbe approfondito e sviluppato il tema del tempo in terapia (“I tempi del tempo” Boringhieri) e la “Terapia sistemica individuale” (Cortina editore 1996) contribuendo a modificare la definizione di questo approccio da “Psicoterapia familiare “ ad “Approccio relazionale sistemico”.
P.G.S.
Gli echi e i rumori della festa serale, gli odori e i sapori di Ravioli del “plin”, di Coniglio dell’Arneis e delle due gigantesche torte con le candeline si vanno più attenuando nel fresco della mattina di Ottobre a Pettenasco, in riva al lago d’Orta, quando cerco di iniziare questa intervista con Luigi e Gianfranco.
Si è celebrato l’anniversario della Scuola Milanese di Terapia Sistemica e più di trecento persone culturalmente vincolate a questo approccio terapeutico sono arrivate da tutto il mondo: dall’Argentina, dall’Australia, dal Canada, dalla Colombia, dalla Danimarca, dalla Germania, dall’Inghilterra, dall’Irlanda, dalla Norvegia, dalla Svezia, dalla Svizzera, dall’Ungheria, dagli USA e, naturalmente, dall’Italia.
Approfitto dunque di un momento di tranquillità misurata dall’incalzare dell’orologio per cercare di intraprendere l’intervista con tutti e due insieme.
Semboloni: La storia comincia con la vostra partenza dall’Italia per gli Stati Uniti.
Boscolo: Nel 1960 sono andato a New York per specializzarmi in Chirurgia Pediatrica, ma dopo le prime esperienze ho scoperto che non avevo le mani del chirurgo. A quel punto potevo tornare in Italia o fare qualcosa d’altro. Decisi di specializzarmi in Psichiatria e di completare il corso di Psicoanalisi presso il New York Medical College-Metropolitan Hospital, dove riamasi fino al 1967, anno in cui tornai in Italia.
Semboloni: E la tua esperienza Gian Franco, come è cominciata?
Cecchin: Neanche per me c’era un progetto legato alla psichiatria, all’inizio. La mia esperienza psichiatrica e psicoanalitica è iniziata in America, dove ero arrivato da Vicenza, dopo la laurea in Medicina. Ero in un Ospedale nel Nord di New York e poi, per due anni in un ospedale psichiatrico dove erano ricoverati adolescenti. Facevano esperienza di psicoterapia, ma anche di farmacoterapia e addirittura di elettroshock.
Semboloni: Finita l’esperienza Americana siete tornati in Italia, ma come è avvenuto questo rientro?
Cecchin: L’idea è nata dopo l’incontro con Mara Selvini, in America, dove era venuta a fare delle conferenze.
Boscolo: Nel 1966, Silvano Arieti, insegnante di psichiatria al Metropolitan Hospital di New York invitò Mara Selvini a un seminario sull’anoressia mentale, dato che aveva scritto il libro sull’argomento. La sera, a una cena a casa di Arieti, ebbi occasione di parlare dei miei programmi futuri con Selvini, che mi invitò, in caso fossi tornato in Italia, a frequentare il centro di S. Ambrogio a Milano fondato da un gruppo di psicoanalisti.
Semboloni: E per te Gian Franco come avvenne il rientro?
Cecchin: Io sono tornato dopo. Ero interessato a lavorare privatamente nel campo della psicoterapia individuale. Ci fu allora un contatto con questo Centro di psicoterapia di S. Ambrogio, diretto da Pier Francesco Galli, circondato da un bel gruppo di persone, tra cui la Selvini, che era interessata a fare psicoterapia familiare. Delle varie figure che entrarono in contatto con lei, alla fine restammo Boscolo ed io.
Boscolo: Quando io tornai dagli Stati Uniti andai a trovare la Selvini, che mi presentò nel gruppo di S. Ambrogio. Aprii uno studio privato e cominciai la mia attività di psicoanalista. Successivamente Selvini mi propose di fare una ricerca sulla terapia della famiglia, che fu la prima ricerca in Italia. (Io avevo già avuto una prima esperienza di terapia della famiglia a New York con Nathan Ackerman, che insegnava psicoanalisi della famiglia al terzo anno del corso di psicoanalisi). Accettai la sua proposta fatta inizialmente anche a Chicchi Rusconi, un’analista junghiana. In tre abbiamo cominciato a trattare famiglie e coppie con il modello psicoanalitico in uno scantinato in piazza S. Ambrogio. In seguito, alla team di tre, si sono aggiunti anche Cecchin, Prata e altri quattro psicoanalisti. Per motivi di spazio ci trasferimmo in un’altra sede, fin quando più tardi, ci stabilimmo in via Leopardi 19. Nel ’71 Selvini propose di cambiare modello, da quello psicoanalitico a quello strategico-sistemico, in quanto il gruppo di Palo Alto (Watzlawick e coll.) otteneva significativi successi con famiglie trattate con un massimo di dieci sedute, mentre con il modello psicoanalitico le terapie si protraevano per lunghissimi periodi. Lasciando la psicoanalisi in quel periodo diventavi un “eretico” e si apriva un futuro professionale incerto e rischioso. Infatti degli otto membri della team, soltanto quattro decisero di cambiare modello (Selvini, Boscolo, Cecchin, Prata). Chiedemmo a Watzlawick di farci da supervisore dietro lo specchio e l’anno seguente ci diede il suo “ok” legittimandoci come terapisti strategico-sistemici della famiglia.
Semboloni: Quali furono i cambiamenti epistemologici fondamentali?
Cecchin: L’aspetto fondamentale era passare dall’approccio individuale, con cui avevamo lavorato per anni in psichiatria e in psicoanalisi, alla relazione con le famiglie. Leggendo programmi della comunicazione umana avevamo incontrato questi assiomi della comunicazione, come: “è impossibile non comunicare”, o l’idea di Bateson, “è impossibile non rispondere alla comunicazione”. Smettemmo di guardare a quello che c’era dentro la testa e ci concentrammo su quello che succedeva tra le persone. Eravamo in quattro che facevano esercizio continuo per aiutarsi a non cadere nell’idea di descrivere l’individuo, ma solo i rapporti, le relazioni. Da lì nacque l’idea che guardano alle relazioni noi osservavamo quello che era “il gioco familiare”. Ogni famiglia aveva un tipo di relazione particolare. Sui milioni di possibilità ogni famiglia impara un modo particolare in fatto di rituali, comportamenti. Quindi l’interesse per le relazioni e la curiosità per come funziona il sistema. Poi sono nati quelli che per anni furono considerati i due interventi fondamentali: uno era la connotazione positiva del sistema. L’altro intervento era quello di prescrivere dei rituali, cioè far fare qualcosa a queste persone, con l’intenzione che facendogli cambiare certi tipi di comportamenti sarebbe cambiato anche il tipo di relazione. Quindi uno dava la connotazione positiva di quello che succedeva e poi il rituale che andava a sconvolgere quello che succedeva. C’era poi anche l’interesse nostro di scoprire se esiste il gioco familiare particolare dell’anoressia, della schizofrenia o nell’addiction. La fantasia era di fare una diagnosi di gioco familiare.
Boscolo: Il cambiamento di modello che ha portato a non pensare più ai sintomi come a dei fenomeni di conflitti inconsci nell’individuo, ma come effetto di dilemmi relazionali all’interno della famiglia.
Coerentemente a una visione sistemico-cibernetica, basata sul concetto di causalità circolare e sul principio della retrazione il sintomo era considerato come un comportamento-risposta a tentativi di soluzione da parte degli altri membri della famiglia. L’obiettivo della terapia si limitava semplicemente alla modifica, o meglio alla rottura dei pattern comportamentali familiari connessi ai problemi presentati, rendendo possibile l’emergenza di nuovi pattern più “funzionali”. L’obiettivo in altre parole era il “problem solving”, la semplice eliminazione dei sintomi ignorando del tutto la persona nella sua totalità e i sintomi di significato in cui è immersa. Questo modello che “puzzava” di behaviourismo e riduzionismo da una parte ci lasciava perplessi, dall’altra parte ci incoraggiò ad andare avanti nella ricerca a causa dei risultati, a volte incredibili, che si ottenevano in poche sedute.
Semboloni: Quale è stato il significato dell’esperienza di formazione con gli allievi del Centro durante questi venti anni?
Boscolo: Agli allievi in formazione al nostro Centro deve essere attribuito il grande merito di aver contribuito, specialmente nei primi dieci anni di training, allo sviluppo del così detto “Milan Approach”, ovvero del Modello Sistemico della Scuola di Milano. Io ed altri docenti insegnavamo più che una tecnica una epistemologia, un modo di leggere ed intervenire sulla realtà. Le discussioni sugli scritti del gruppo di Milano e di Palo Alto e specialmente di G. Bateson, accompagnate a esperienze “in vivo” di consulenze e terapie familiari e di coppia, contribuivano a trasmettere agli allievi le idee di base sul “pensiero sistemico”, coerentemente ai principi dell’epistemologia cibernetica.
Come si sa, scrivere e insegnare arricchisce, e tale arricchimento deve molto agli allievi che ci hanno continuamente stimolati. Il loro maggior contributo, nel corso degli anni, è stato quello di applicare il modello teorico a una realtà molto diversa da quella di un centro privato, cioè alla complessa realtà dei servizi pubblici.
Le ipotesi sistemiche fatte al Centro, che si riferivano di solito a terapeuta, famiglia, inviante, richiesero un allargamento che comprendesse il personale e la “filosofia e prassi” del servizio, nonché la relazione con gli altri servizi ed enti vari. Le “tesine” ed i lavori scritti dagli allievi testimoniano abbondantemente la ricchezza e la validità dei loro contributi.
Cecchin: È stata un’esperienza fondamentale perché ha aiutato noi ad osservare il terapeuta. All’inizio gli allievi facevano sempre domande su come ci comportavamo noi. Mentre noi parlavamo sempre di famiglie, gli allievi parlavano dei terapeuti, per cui siamo stati costretti a osservare i nostri comportamenti ed è nata questa idea “classica” delle domande circolari, della posizione neutrale, del bisogno di aver sempre un’ipotesi, che in qualche modo ha creato le basi del nostro insegnamento. Poi abbiamo cominciato a parlare della struttura del terapeuta: delle idee, come riesce ad organizzarle, come vengono usate e come le idee del terapeuta creano in qualche modo un circuito che possiamo quasi definire cibernetico con le idee della famiglia. Ci sono stati vari momenti. All’inizio eravamo più dell’idea di “fare qualcosa alla famiglia”, quindi più interventisti e più interessati a insegnare agli allievi metodi di intervento. Poi c’è stato un cambiamento, abbiamo fatto meno interventi verso le famiglie e siamo stati più attivi con gli allievi, cercando molte simulate e usando alla fine anche la “refleacting team”. Anche gli allievi sono cambiati. All’inizio si trattava di gente che aveva fatto anni di psichiatria o di psicoterapia e quindi erano persone esperte venute per imparare un metodo diverso o da aggiungere al loro metodo. In seguito abbiamo cominciato ad avere allievi alle prime armi e abbiamo dovuto modificare il nostro stile e il nostro modo di intervenire. All’inizio eravamo molto centrati sulla teoria, facevamo letture fondamentali; poi ci siamo orientati di più a mettere fin dall’inizio l’allievo in connessione con il sistema famiglia per vedere come questo terapeuta reagisce. Adesso ci dovranno essere ancora cambiamenti in relazione all’approvazione e alla regolamentazione del rilascio del Diploma in Psichiatria della Famiglia da parte del Ministero.
Semboloni: Quali sono i cambiamenti più importanti avvenuti negli ultimi dieci anni all’interno del modello sistemico?
Boscolo: Uno dei cambiamenti più evidenti ed importanti è stato l’allargamento del “sistema significativo” (cioè delle persone connesse al problema presentato) dalla famiglia ai sistemi più vasti, quali scuola, servizi, istituzioni, etc., tanto più da identificarci nel ruolo di consulenti e terapeuti della famiglia. Il sottoscritto ha fatto parte di un gruppo americano di consulenti aziendali, che aveva adottato il modello sistemico, ispirato alla Scuola di Milano, nelle consulenze sullo sviluppo organizzativo di grosse aziende. Ma il cambiamento più significativo si è verificato dalla metà degli anni ottanta, in seguito alla rivoluzione del costruttivismo, della cibernetica del secondo ordine e del costruttivismo sociale (Maturana e Varela; Von Foerster, Von Glaserafeld, Gergen). Tale rivoluzione ha portato di prepotenza al centro della scena nella consulenza e nella terapia l’osservatore e il linguaggio. Un osservatore non più “centrale”, le cui descrizione del sistema osservato includevano le sue teorie e pregiudizi. Sono entrati nel nostro linguaggio concetti quali la costruzione e la co-costruzione della realtà, la soggettività della conoscenza, l’autoreflessività.
L’idea di Maturana che la realtà emerge nel linguaggio attraverso il consenso e che esistono tante realtà quanti sono i linguaggi (multi verso), ci ha portato a considerare il linguaggio non più soltanto come un mezzo, ma come un fine della terapia, nel senso che ascoltando le parole e le metafore dei clienti si può comprendere come costruiscono la loro realtà. Il terapeuta può quindi cambiare la loro realtà usando appropriate parole, espressioni, metafore. In precedenza il cambiamento era invece attributo ai cambiamenti dei “giochi familiari”, per esempio alleanze, coalizioni o segreti. In altre parole, l’obiettivo si è spostato più verso il cambiamento dei “giochi linguistici” (Wittgenstein) che delle modalità organizzative del sistema dei clienti. La centralità e importanza del linguaggio è testimoniata anche dai recenti sviluppi della Retorica, dell’Ermeneutica e della Narrativa (vedi l’articolo “Terapia Sitemica e Linguaggio” di Boscolo, Bertrando, Connessioni n. 1 Ottobre ’97). Un’importante evoluzione della teoria sistemica in questo periodo è anche l’interesse per l’individuo (vedi il volume “Terapia Sistemica Individuale” di Boscolo e Bertrando, Raffaello Cortina 1996).
Cecchin: Anche per me il grande cambiamento è stato nel passaggio dai concetti di cibernetica di I ordine ai concetti di cibernetica di II ordine, cioè la valorizzazione dell’osservatore. Tutto quello che diciamo e cediamo è descritto da un osservatore. Maturana suole mettere sempre su ogni lavagna, ogni foglio in cui scrive, un occhio, in alto sull’angolo di destra, per dire che tutto quello che succede è solo quello che osserva l’occhio dell’osservatore. Questo è stato un cambiamento importante anche se alcune delle idee fondamentali degli ultimi venti anni sono rimaste solide: tipo il concetto di circolarità dei sistemi, il fatto che non esiste niente al di fuori della comunicazione e della relazione. Partendo dai tre principi che avevamo insegnato all’inizio, abbiamo sviluppato diverse idee. Per esempio l’ipotesi è diventata sempre più una costruzione di storie, di narrative. Nel concetto di ipotesi pria c’era sempre un’idea di verità, di cercare qualcosa che veramente esiste. Nel tempo si è trasformata in narrative e storie. Ogni essere vivente, ogni gruppo vivente non può non avere una storia, non costruire una storia nella continua conversazione con il contesto, con il suo mondo circostante. Per quanto riguarda invece il concetto di neutralità c’è stato un cambiamento, ora si parla di curiosità, assumendo una posizione più attiva. La neutralità era un’idea per uscire dalla posizione lineare, basata sul dare la colpa a qualcuno o qualcosa rimanendo affascinati solo dalle connessioni, dai “pattern che connettono” come diceva Gregory Bateson. Ora si è trasformata in una neutralità di II grado, attraverso la coscienza della propria posizione non neutrale.
La circolarità è l’unico punto che, io direi, è rimasto invariato. Quando si parla della Scuola di Milano si parla ancora delle domande circolari.
Semboloni: Secondo voi in quali campi si è avuta la ricaduta più significativa dell’intervento sistemico?
Boscolo: Nel campo delle scienze sociali le teorie sistemiche hanno influenzato alcuni esponenti di spicco nella psicoanalisi, nel cognitivismo e nelle terapie eriksoniane. È però nel campo delle consulenze e terapie familiari e di coppia o nelle consulenze di macrosistemi sociali e aziendali che l’intervento sistemico ha trovato la sua più significativa applicazione.
Cecchin: l’intervento sistemico è stato applicato inizialmente con le famiglie che venivano privatamente nel nostro Centro e in altri Centri del mondo, ma io penso che l’effetto più grande sia stato nelle istituzioni, tipo ospedali, centri di igiene mentale, servizi tossicodipendenze. Infatti ha modificato il modo di pensare di molti operatori, rivoluzionando i loro atteggiamenti.
Semboloni: Negli anni ottanta il “modello milanese” di psicoterapia della famiglia era uno degli approcci più conosciuti negli Stati Uniti e quindi, da allora, voi avete avuto modo di ritornare frequentemente nel paese in cui avevate iniziato la vostra esperienza formativa psichiatrica, come ospiti, invitati per conferenze, supervisioni, convegni. Considerando che la Psicoterapia Familiare, come del resto la psicoterapia in generale, sembra in crisi negli Stati Uniti, cosa pensate sia cambiato da allora?
Boscolo: Nell’ultimo ventennio, negli Stati Uniti, la psicoterapia in generale è entrata in una profonda crisi, in quanto grosse organizzazioni (H.M.O.) delegate dalle compagnie assicurative si sono occupate della salute fisica e mentale della maggioranza dei cittadini, basandosi su rigorosi principi di economia (costi-benefici) che privilegiano nella psicoterapia interventi brevi di poche sedute. Gli psicoterapeuti privati sono in crisi e se vogliono sopravvivere devono adeguarsi alle pesanti richieste di tali organizzazioni. Ciò è dovuto all’effetto degli studi recenti sul sistema nervoso e sul grande potere delle case farmaceutiche. Il territorio per gli psicoterapeuti sta restringendosi sempre più. Per quanto riguarda le vicissitudini del Modello Milanese negli Stati Uniti, è vero che, a differenza dell’Europa, dell’America del Sud e dell’Australia, ha perso molte posizioni a favore dei modelli di terapia breve indirizzata al “problem solving”. C’è anche da dire che la cultura consumistica americana si libera in breve tempo dei suoi prodotti culturali. Nel periodo citato sono sorte innumerevoli scuole di terapia e gruppi che hanno soppiantato altre scuole e altri gruppi.
Cecchin: Noi siamo stati invitati negli Stati Uniti all’Ackerman Institute nel 1978; quella è stata la data di introduzione della Scuola di Milano negli Stati Uniti. Da lì siamo partiti e poi siamo stati invitati in California, a Chicago, nelle varie province del Canada, ecc. Una volta presentato il modello negli Stati Uniti, gli inviti più costanti sono venuti poi dall’Europa: Inghilterra, Paesi Scandinavi, etc. È interessante come in America assorbita un’idea si passa ad un’altra. Hanno elaborato quello che proponeva la Scuola di Milano, spostando poi l’interesse su altro. Lì la nostra reputazione scientifica è ancora basata su quel modello degli anni settanta. In Europa è stato diverso. Per quanto riguarda la psicoterapia in generale, non sono sicuro che sia in crisi. È in crisi l’aspetto economico della Psicoterapia. Ormai tutti si aspettano che la psicoterapia venga pagata dalle Assicurazione, che mettono sempre più rigidi schemi di comportamento ai vari terapeuti.
Semboloni: Una domanda per Luigi Boscolo: cos’è per te il tempo in Psicoterapia?
Boscolo: Per me il tempo in psicoterapia è una variabile importante, come “relazione” per Bateson, “potere” per Haley, “libido” per Freud, ecc. In una comunicazione personale, H. Von Foerster ha sostenuto la tesi che il tempo non è un problema per coloro che vivono nel presente e sono volti verso il futuro. I “pazienti” invece hanno tutti problemi con il tempo, non riuscendo a coevolvere armonicamente con gli altri. Il tempo è spesso vissuto da loro in modo lineare causale: il passato impone vincoli deterministici al presente ed il presente al futuro. L’azione del terapeuta è di introdurre tra le tre dimensioni del tempo una relazione di tipo riflessivo, creando passati e futuri ipotetici nel presente. Un’idea fondamentale è la “multi temporalità”, cioè l’importanza della coordinazione fra i diversi tempi, fra i tempi individuali, collettivi, sociali e culturali: è come un’assenza di tale coordinazione può essere all’origine di problemi, sofferenze, patologie. Un tipo particolare di coordinazione è quello fra i tempi individuali del terapeuta ed i tempi individuali dei clienti, la cosiddetta “danza” (Minuchin) che tanta importanza ha nel nostro lavoro.
Semboloni: Una domanda per Gianfranco Cecchin: come sono nati e quale relazione esiste tra i concetti di: “curiosità”, “irriverenza” e “pregiudizio” che tu hai sviluppato in Psichiatria?
Cecchin: Come ho già detto prima l’idea di “curiosità” è nata per uscire dal condizionamento della parola “neutralità” che veniva criticata, soprattutto nel mondo anglosassone dalle femministe. Inoltre voleva introdurre l’idea che l’essere umano no può essere neutrale: se si mette in contatto con qualcosa diventa attivo. La “neutralità” sembrava quindi indicare una posizione quasi passiva, mentre la “curiosità” dà il senso dell’intervento, dell’interesse. La curiosità in qualche modo mette anche i terapeuti in condizioni di agire. Da qui è nata poi l’idea di “irriverenza”. (Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i terapeuti. G. Cecchin, G. Lane, W. Ray, F. Angeli 1992) Una volta capito quali sono le idee che dominano il discorso, il rapporto tra terapeuti e famiglia, tra terapeuti e struttura sociale, cosa succede, quando queste idee forti invece di diventare una qualità del sistema diventano un pericolo? Quindi è nata questa idea che un atto terapeutico spesso è un atto di irriverenza verso idee fisse, specialmente idee del terapeuta, che è l’unica persona che può cambiare le proprie idee. Noi non possiamo cambiare le idee della famiglia. Normalmente l’irriverenza è verso idee forti, rigide, che in qualche modo sono necessarie per un certo periodo di tempo per la sopravvivenza del sistema, ma che diventano un impedimento da un certo momento in poi: queste idee forti sono i “pregiudizi”. Le idee sono dunque necessarie, ma anche pericolose. I “pregiudizi” sono inevitabili e non necessariamente la parola “pregiudizio” implica un’opinione negativa. L’idea era di dare valore ai pregiudizi, come inevitabili e come “riciclabili” se vengono messi al servizio della conversazione che si sviluppa tra le famiglie e i terapeuti, tra questi i colleghi, tra le famiglie e i loro membri. (Verità e pregiudizi, G. Cecchin, G. Lane, W. Ray, R. Cortina 1997)
Semboloni: Un’ultima domanda per chi mi vuol rispondere: quale futuro per la Psicoterapia?
Cecchin: La psicoterapia è intramontabile, perché ci sarà sempre qualcuno che accetterà di parlare con qualcun altro di problemi, difficoltà e di come risolvere stati di malessere personale o di gruppo. Forse cambierà nome. Per ora è stata chiamata psicoterapia, potrebbe essere chiamata in futuro: consulenza, intervento di cambiamento … s’intende comunque l’intervento “cosiddetto terapeutico” che nel vecchio sistema freudiano è praticamente la “talk therapy”. Due persone si mettono insieme e parlano, fanno qualcosa insieme, potrebbero agire insieme, creando una forma di conversazione analogica. Questo tipo di comportamento esisterà sempre.
Quanto alla psicoterapia sistemica avrà certamente un futuro adattandosi strutturalmente ai cambiamenti che avvengono nel sociale, nel pensiero collettivo, nelle organizzazioni delle famiglie, nella cultura in generale.
Sono addolorato proprio,
al di là di una ” tecnica” terapeutica o di un’altra, il maestro Luigi Boscolo era, come peraltro anche Cecchin, un Grande clinico ed un terapeuta creativo .
Psichiatra, negli USA aveva fatto anche un training analitico e si vedeva!
Io ho fatto con lui e Cecchin il primo gruppo, durato 4 anni, di training di terapia familiare in via Leopardi a Milano con il gruppo di Reggio e Modena.
Lo contestavamo sempre e lui con pazienza sapeva sempre rimettere bene insieme i pezzi/cocci e poi per alcuni anni ho seguito anche i convegni annuali… poi mi sono allontanato ma a tutt’oggi sono rimasto iscritto alla Società .
Boscolo è stato un fine maestro e così lo porto ancora oggi dentro di me.
Ma ricordo anche l’uomo divertente e di charme, buon mangiatore e bevitore con una finezza clinica – mi sto ripetendo – rara… insomma sono stato fortunato ad averlo conosciuto ed avere potuto imparare da lui.
Un grande abbraccio professor Luigi!
sicuramente un approccio che arricchisce.. su una base attenta al proprio ‘mondo interno’.
Una formazione che si aggiunge, aiuta, molto interessante. Richiede un uso intelligente. A mio modesto parere. Ho fatto la scuola tanti anni fa aimè.