Commento all’articolo uscito su La Repubblica del 11/4/18
Michele Mari ci racconta l’avventurosa storia di W. C. Minor: figlio di missionari nato a Ceylon dove si è confrontato con una cultura molto diversa da quella della sua famiglia, anche quanto ai costumi sessuali; laureato in medicina; volontario nella guerra di secessione americana; abbandonato a una regressione personale e sociale negli angiporti di New York; omicida spinto da fantasie persecutorie; ricoverato quindi per decenni in manicomio. Infine liberato a affidato ai nipoti, diviene prezioso collaboratore nella compilazione dell’Oxford English Dictionary, cui fornisce negli anni migliaia di schede relative ad altrettanti vocaboli, e di riconosciuta grande qualità. Oggi definiremmo questa una riabilitazione spontanea ben riuscita.
Forse la sua dimostrata efficienza è un risvolto socialmente accettabile della condizione psicopatologica, e precisamente di quella componente ossessivo – compulsiva che sappiamo presente in non poche condizioni psicotiche, e che può aver favorito la sua scrupolosa applicazione al lavoro richiestogli. Nulla di nuovo, ma dà l’occasione per riflettere nuovamente sul rapporto, tutt’altro che univoco, fra psicopatologia e valori, o disvalori, sociali; e anzi su una domanda ancor più impegnativa: che cosa è psicopatologico?
Il concetto di follia è nato – dalla follia di Aiace in poi – dal confronto della collettività con comportamenti insoliti, impropri, imprevedibili, inspiegabili, pressochè intollerabili: è divenuto molto meno delimitabile quando si è cominciato a considerare anche condizioni umane più sfumate ma che non si riesce a riconoscere come “normali”. Più o meno consapevolmente, si definiscono patologici uno stato mentale e un comportamento sulla base di vari criteri non sempre coincidenti: quello statistico, per cui comportamenti molto insoliti hanno probabilità di esser considerati patologici; quello biologico, concettualmente molto affidabile ma applicabile solo nei disturbi mentali con dimostrata base somatica; quello della sofferenza soggettiva e della egodistonicità di vissuti e comportamenti; quello della devianza sociale, strettamente connesso a quello della compromessa funzionalità sociale.
Questi ultimi aspetti sono stati, e sono, prevalenti nell’interessamento pubblico al problema follia; ma vengono messi in crisi, almeno sul piano teorico e come criterio definitorio del concetto, proprio in casi come quello qui descritto, che ci presenta una follia “socialmente utile”, cosa del resto non nuova nella nostra esperienza. Ricordo un paziente schizofrenico che, partito volontario in quella spedizione in Libano che ben ricordiamo, è divenuto una specie di eroe; per quando ne so, grazie a una sua iniziativa che tenderei a ritenere sconsiderata. Ma questo è un caso particolare, che ha che fare con quella follia collettiva che è la guerra.
Si potrebbe aprire, volendo, una questione di lana caprina sul discutibile concetto di “parti sane”. Se l’ossessività di W.C. Minor è una modalità di controllo dell’aggressività e una risposta meno regressiva rispetto alla proiezione persecutoria, tentare di definirla “sana” o “malata” sarebbe un esercizio sterile. Quel che è certa è la sua utilità alla collettività e anche a lui stesso, per l’effetto antistigmatizzante e incentivante l’autostima.
Altri risvolti di questa problematica sono certe affinità formali, evidenziate a suo tempo da Rossi Monti in “La conoscenza totale”, fra costruzione di una teoria scientifica e costruzione paranoica: entrambe fondate sulla paziente raccolta di indizi cui attribuire un significato giungendo infine a una teoria organica e dotata di coerenza interna. Certo, lo scienziato di solito non mette sé stesso al centro della costruzione, ammette procedimenti di falsificazione e può (non sempre!) ammettere di avere sbagliato; ma è già successo che questa differenza si appanni fortemente, come nello storico caso di Wilhem Reich.
E poi c’è il grande problema della relatività culturale, poiché in certe culture comportamenti e vissuti che abitualmente riteniamo patologici, come ad esempio le allucinazioni, vengono riassorbite addirittura come elemento di prestigio sociale e di potere.
Credo sia legittimo indicare, in questo intreccio fra esperienze psicopatologiche e realizzazioni perfino di buon valore sociale, uno dei fondamenti delle nostre attività riabilitative, tese fondamentalmente all’incontro fra una individualità da accogliere con rispetto e la necessaria accettazione della collettività.