Vaso di Pandora

Il complesso rapporto tra cura e TSO

Il crescente inasprimento della contrapposizione tra giustizia e sanità, iniziato con lo “sgarbo” della legge 81 del 2014 sta dando una spallata ad una modalità operativa dei servizi di salute mentale che già mostrava forti criticità. Diventa sempre più difficile focalizzare il bisogno di cura su cui attivare le risorse, già sfiancate, dei servizi di salute mentale. Proviamo a ragionare su cosa sta accadendo nel rapporto tra cura e TSO e come intervenire.

La grande disillusione della fine dello scorso millennio

Partirei dalla grande disillusione della fine dello scorso millennio, dopo che la psichiatria ha attraversato una fase di speranze per lo più derivate da un approccio sempre più ampio e dilagante degli psicofarmaci. La trasformazione dei Centri di Salute Mentale in ambulatori di psichiatria, avvenuta silenziosamente e senza cambiare i nomi sul citofono ha generato un grave scollamento tra le diverse fasi del trattamento che, una psichiatria di comunità fatta a regola d’arte, non avrebbe dovuto accettare.

Nello stesso modo si è aperta la crisi delle psicoterapie “forti” nel pubblico, con un grande dispendio di energie a vantaggio di pochi pazienti, con un approccio prevalente da operatore unico, poco integrato con il sistema curante. Psicoterapie che, vista la mia età, ho constatato chiudersi solo con la quiescenza degli operatori, a riprova del fatto che, anche sul versante psicologico, abbia prevalso la seduzione narcisistica (Racamier 1980) ad una più sana e utilizzabile salute mentale articolata.

Le conseguenze di questo scollamento? L’invio in Comunità dopo oltre dieci anni di trattamento ambulatoriale e solo al momento della constatazione di fallimento. Per le cronicità ancora più evidenti l’invio al Centro Diurno, sempre dopo moltissimi anni. La percentuale alta di drop out di questi invii, che hanno corrisposto, quando riusciti, ad una delega complessiva della presa in carico. Questo ha trasformato le Comunità Terapeutiche in Residenze, con una evidente rinuncia all’identità terapeutica, i Centri Diurni in Centri Sociali sempre meno “Psico”, dove la riabilitazione resta confinata a poche pratiche, magari ripetitive e poco verificate, e l’inclusione sociale di fatto è un inganno, se la società in cui si viene inclusi è un artificio, un luogo isolato, con pochi punti di scambio reale con il mondo circostante. Fatte le debite eccezioni per eventi straordinari tipo feste, gite, soggiorni, visite.

L’elemento comune della crisi nel rapporto tra cura e TSO

L’elemento comune della crisi è stata, dal mio punto di vista, la difficoltà di rialzarsi dalla posizione di coloro che dispensano salute e vengono delusi dalle resistenze dei pazienti, dei familiari.

Trattare quotidianamente con pazienti ingrati, sempre sul piede di guerra, che si sentono vessati e perseguitati, e da familiari arrabbiati, rivendicativi, spesso vittime di un pensiero persecutorio o risarcitorio è letteralmente sfiancante. Rare soddisfazioni, poche gratificazioni, rarissimi riconoscimenti. Anzi, curare sembra in alcune fasi una pratica sadica che viene accettata solo dai più masochisti. I migliori, quelli che hanno più risorse, scappano o combattono.

Il rapporto tra cura e TSO

Ma non sarà che il piede sbagliato stia proprio nell’uso del TSO e del SPDC. In fondo l’ospedale é l’unico luogo della salute mentale ad avere conservato il termine “psichiatrico”. Mi viene il dubbio adesso: non sarà che chi lavora in ospedale si sente l’unico depositario della cura, e che si è sempre più allungato il divario tra ospedale e territorio? Simile sorte è toccata in Italia al rapporto tra Università e Salute Mentale pubblica, analoga contrapposizione c’è tra pubblico e privato, tra biologisti e psicologisti.

Si potrebbe ipotizzare che tutti questi conflitti, mai risolti, finiscano per depositarsi nei nostri pazienti, come accade per i figli cresciuti con genitori molto litigiosi. E anche il TSO è in fondo il seme di una discordia tra curante e curato. Mettiamo il paziente in sicurezza ma lo avviamo ad una esistenza guerresca, mentre per curarsi bisogna affidarsi, avere tempo, serenità, sostegno. Un paziente con cui ragionavo durante un Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare parlava di continui ricatti terapeutici subiti basati sul TSO. E sono certo di averlo capito bene, e che il suo vissuto fosse lucido. E’ proprio quello che accade. Per curare si ricatta, e l’arma che utilizziamo è il TSO.

L’importanza della riabilitazione precoce post-crisi

Un lungo lavoro iniziato e mai finito per avviare alla riabilitazione precoce post-crisi i pazienti ricoverati, in particolare i più giovani, mi ha dato molto da pensare. La prima impressione è che i pazienti, appena dimessi dal SPDC abbiano solo una cosa in testa: sfilarsi prima e meglio possibile dalle maglie della salute mentale.

Eppure, nonostante la negatività di questa premessa, un grande numero di pazienti, familiari e operatori sono impegnati nel difficile compito di curare e curarsi. Come fare a recuperare il senso della cura, cosa dire ai pazienti e cosa aspettarci, come chiamarli in gioco in un processo che funziona solo se pazienti e familiari accettano di svolgere un ruolo attivo? Sbagliamo qualcosa, magari proprio nelle prime battute, quelle che lasciano il segno, l’imprinting di una cura di cui si impara da subito a non fidarsi fino in fondo.

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Commenti su "Il complesso rapporto tra cura e TSO"

  1. Condivido e sottoscrivo: mi sembra anche interessante che stia ottenendo un grande successo la pratica dell’Open Dialogue, che rimette sostanzialmente in discussione chi sta male: il paziente o il sistema di cui fa parte?
    Possiamo seguitare a credere e far credere, come si fa abitualmente in SPDC, che la malattia mentale nasca dentro von individuo e non sia il prodotto di relazioni patologiche nelle quali è coinvolto?
    Ma se è così: possiamo seguitare ad occuparci soltanto dei pazienti?
    In autunno, ci sarà prima il Congresso Isps, a Verona, dal 27 al 29 settembre e, in seguito, le Giornate per il benessere mentale di Comunità, aventi per argomento le Comunità terapeutiche, l’Open Dialogue e il Congresso Lipsim, dal 30 settembre al 5 ottobre a Caltagirone.
    Avremo modo di discutere dei temi proposti da Federico Russo.

    Rispondi
    • Condivido la riflessione di Andrea. Bisogna aprire un confronto aperto su approcci dialogici, relazionali, democratici mettendo in discussione epistemologie che un tempo erano “forti” (psicoanalisi, terapia sistemica, cognitivismo, psicoeducazione etc)
      ma oggi spesso risultano inadeguati ai cambiamenti radicali della società e delle forme di manifestazione della sofferenza psichica. Questo non significa che non sono preziosi e anzi sono “necessari” come formazione di base. Ma non bastano più.A mio avviso la psicoanalisi multi familiare, le pratiche dialogiche, la comunità terapeutica democratica sono delle tracce possibili e delle strade da percorrere dove terapeuti, familiari, utenti e amici e cittadini a vario titolo coinvolti nella sofferenza grave sono tutti curati e curanti in un lavoro di gruppo comunitario senza presunzione e certezze assolute ma disponili umanamente a lavorare su relazioni di interdipendenze patologiche che spesso sono paralizzanti e senza speranza. I due eventi citati da Andrea saranno una buona occasione di confronto di di reciproci apprendimenti.

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