Vaso di Pandora

Hikikomori: da ritiro sociale a fenomeno psicopatologico

1.2.1 La società giapponese

Prima di affrontare dal punto di vista psicologico la patologia di hikikomori occorre riflettere sul contesto storico culturale entro il quale ha preso forma. L’evoluzione della coscienza e dei valori collettivi di una cultura sono imprescindibili dall’analisi delle malattie psicologiche che una società produce (Cardoso, 2005).

La cultura occidentale e quella giapponese si sono sviluppate in contesti storici e sociali unici e molto diversi, e questo ha prodotto coscienze storiche e morali lontane tra loro.

Il Giappone inoltre incarna una civiltà unica, che si è proiettata nel mondo moderno senza acquisire quei valori, norme e modi di pensare che nei paesi occidentali si sono sviluppati di pari passo con il progresso. Il Giappone è l’unico paese industrializzato a non aver mai avuto una rivoluzione sessuale, le lotte di classe o ancora quelle per la libertà di espressione che hanno contraddistinto invece la storia delle società occidentali (Zielenziger, 2006).

Per  duecentocinquanta  anni  il  Giappone  ha  vissuto  come  un  paese  chiuso,  che  bruciava  le imbarcazioni  dei  mercanti  che  si  addentravano  nelle  sue  acque  (Rees,  2002).  Un  modo  per comprendere come mai hikikomori sia un fenomeno tipicamente giapponese potrebbe essere quello di considerarlo come un riflesso della storia e della cultura del Paese. Durante il periodo tra il 1636 e  il 1854, nel periodo definito Edo, pressoché l’intero Giappone è stato isolato dall’influenza straniera e dai viaggiatori che venivano da altri paesi. Alla popolazione giapponese era vietato lasciare il paese, e gli stranieri venivano violentemente respinti o uccisi. Vi era solo un luogo per gli scambi con il mondo esterno al porto di Nagasaki. Questo luogo per gli scambi rappresentava l’unico ponte con l’esterno. Allo stesso hikikomori può essere considerato come il Giappone del periodo Edo, in cui nello stato di reclusione e di isolamento viene mantenuta una linea di contatto con l’esterno grazie solo a quel piccolo ponte verso il mondo che è internet. (Zielenziger, 2006). Takeo Doi (1971) spiega il controverso rapporto del Giappone con le altre culture attraverso il meccanismo dell’identificazione e assimilazione. Quando il Giappone in passato è venuto a contatto con nuove culture, le ha accolte e si è adattato ad esse solo nella misura in cui queste non rappresentavano una minaccia, anzi potevano incoraggiare e sviluppare ciò che già esisteva. La società giapponese si limitò ad adottarle per i propri scopi. I giapponesi  hanno cercato in un primo tempo di “ingraziarsi” la cultura occidentale, ed infine l’hanno “divorata avidamente”(Doi, 1971). La politica del Giappone moderno è stata improntata alla determinazione di collocarsi al livello delle potenze occidentali grazie all’imitazione e all’adozione di tutto ciò che è occidentale. La stessa industrializzazione, promossa a pieno regime a seguito della sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, è stata ispirata dagli stessi motivi (Cardoso, 2005). I giapponesi hanno tentato di ignorare il mondo a loro estraneo e a mostrare diffidenza per quanto è stato loro possibile, ma dietro questa facciata di indifferenza, hanno osservato con attenzione ciò che li circondava, e, quando non è stato più possibile ignorarlo, si sono preoccupati di identificarsi e di assimilarlo (Doi, 1971). Doi (1971) sostiene che l’atteggiamento dei giapponesi   è stato sempre caratterizzato dalla curiosità e dal vivo desiderio di accedere alla cultura occidentale, sensibili a ciò che avviene fuori dal loro mondo e inclini ad identificarsi con quanto appare loro superiore e ad adottarlo, e , se talvolta l’hanno rifiutato, è stato perché l’hanno giudicato pericoloso.

Uno dei cambiamenti più significativi è avvenuto in Giappone a seguito della Seconda Guerra Mondiale, quando vi fu un inserimento, per certi versi forzato, di valori assolutamente estranei alla cultura giapponese fino ad allora, al punto che Masafumi e Rizzoli arrivarono ad ipotizzare che “ tutta una generazione post-bellica, in una massiccia identificazione con l’aggressore, si rivolse all’America” ( Masafumi, Rizzoli, 1995). Vi fu l’importazione oltre che di valori, di tradizioni e di mode  tipiche  della  cultura  occidentale.  Molti  giovani,  anche  per  un  rifiuto  di  valori  della generazione precedente, vi si uniformarono, così come fece la generazione dei loro genitori, a causa dei sentimenti di vergogna per la sconfitta. Il Giappone cercò di modernizzarsi velocemente, deciso a  non dover chinare la testa davanti agli invasori occidentali, e si propose di guidar lo stesso processo in tutta l’area asiatica. La propria grandezza venne perseguita non più con strumenti bellici ma con l’acqisizione e la dedizione totale alle leggi del mercato e alla tecnologia (Zielenziger,

2006).

La necessità di piegarsi alla cultura occidentale e di adottare stili di vita prima estranei, se da un lato offriva opportunità di crescita al Giappone, dall’altro comportò modificazioni nello stile di vita, nel sistema sociale, nella famiglia, che incrinarono l’insieme solido e compatto di valori e tradizioni che sorreggeva la società giapponese ed era alla base dell’unicità della loro cultura. Inoltre, l’acculturazione forzata venne effettuata mantenendo la natura collettivistica e il fondamento dell’armonia sociale imposta dal gruppo, cercando di evitare così le conseguenze negative della modernizzazione così come si erano presentate negli altri paesi (Cardoso, 2005).

La frustrazione della sconfitta dopo la Seconda Guerra Mondiale venne superata attraverso uno sviluppo economico che avrebbe portato il Giappone ad essere uno dei più importanti produttori di tecnologie al mondo.

La modernizzazione del paese e l’economia si svilupparono in modo peculiare rispetto al resto del mondo, il mondo degli affari e il governo crearono un connubio che permise di rafforzare la stabilità sociale. Le industrie puntarono sul lungo termine, garantendo ai propri dipendenti il posto fisso a vita, creando il mito dell’azienda come famiglia. I lavoratori consideravano i propri dirigenti competenti, devoti al conseguimento degli obiettivi nazionali. Venne creata una macchina capace di funzionare perfettamente, saldata dal rafforzamento dell’ideale del  bene del  gruppo  (Hamada, 2004).

La sfida giapponese coinvolse ogni ambito della vita dei cittadini, dal lavoro, alla famiglia, alla scuola. Il sistema educativo divenne sempre più competitivo, vennero imposti duri criteri di selezione, da esso uscì una grande quantità di giovani laureati, preparati al mondo industriale, dei quali quasi tutti coloro che cercavano lavoro lo trovavano ed erano pronti ad essere inghiottiti dal mondo del lavoro e ad assumere la propria collocazione nell’ingranaggio del sistema societario ed economico giapponese.

Il modello familiare mutò, le famiglie divennero sempre più ristrette, spesso con un unico figlio, ed il padre divenne sempre più assente dalla vita familiare, completamente assorbito dal lavoro (Inamura, 1990).

Ma nel 1989 il sogno si infranse e la bolla speculativa scoppiò, il sistema produttivo ed economico del paese divennero sempre più inadeguati al mutamento dei modelli economici nel resto del mondo (Parry, 2004). L’economia mondiale acquisì caratteristiche sempre più mobili e globali, richiedendo una flessibilità ed un’assunzione del rischio che il Giappone non era preparato ad affrontare, avendo adottato uno stile di produzione ed essendosi uniformato alle logiche del mercato economico sostanzialmente per identificazione ed assimilazione ( Murakami, 2000). Il Giappone si è sviluppato in modo relativamente chiuso e inquadrato, imprenditoria e governo hanno lavorato insieme per saldare i valori comuni, gli innovatori e gli investitori stranieri sono stati sempre guardati con diffidenza, la disciplina di gruppo, la gerarchia e il conseguimento del consenso hanno guidato ogni progresso e contenuto l’iniziativa individuale (Zielenziger, 2006). Nel momento in cui è sorto un nuovo sistema di commercio globale, che ha  richiesto innovazione, flessibilità, creatività, si è rivelato particolarmente faticoso per il Giappone adattarvisi. Il Giappone si è irrigidito, soffocando il cambiamento e opponendo resistenza all’innovazione fino a soffrire di una disoccupazione crescente, soprattutto tra i giovani, una crescita rallentata ed una crisi economica (Zielenziger, 2006).

L’eccessiva pressione a passare gli esami, entrare nella giusta università per poter così avere una carriera di successo, è stata per lungo tempo instillata nella mente degli studenti come un “sogno personale” al quale aspirare in modo da contribuire a creare nel dopoguerra un paese ricco(Parry, 2004). Ad ogni modo, questo sogno ha perso la sua ragione di essere dopo una lunga decade di recessione economica. L’utilità di passare esami difficili e di sopportare lo stress dovuto all’estrema competitività ha cominciato ad essere messa in discussione da coloro che non vedevano più una via d’uscita. Zielenziger definisce la condizione di molti giovani giapponesi di oggi una forma di “ sindrome di adattamento”, per cui si trovano ad  “orchestrare modi per sfuggire ad una società che annichilisce ogni speranza e promessa di realizzazione di se stessi” (Zielenziger, 2006).

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i giapponesi che lavoravano senza mai fermarsi venivano in ultimo ripagati con la sicurezza di un lavoro a vita. Il percorso era perfettamente delineato: si andava a scuola, poi all’Università, e si trovava lavoro in una grande azienda, che si prendeva cura di te per il resto della vita. Adesso la nuova economia globale richiede una serie di capacità, come pensiero critico e indipendente, intraprendenza, comunicatività, che le scuole e i genitori non insegnano. I giovani spendono così molti anni delle loro vita ad essere educati per un sistema lavorativo che non esiste più, lasciando sentimenti di inadeguatezza (Hamada, 2004).

Questa condizione diffusa di ansietà si riflette nel crollo del tasso di natalità, nel crescente disagio che manifesta la generazione di oggi con il proliferare dei suicidi, di cui il Giappone vanta il più alto tasso tra le popolazioni ricche, il dilagare dell’alcolismo, della depressione, e dell’esaurimento per eccesso di lavoro (Zielenziger, 2006).

Molti giovani giapponesi abbandonano il loro paese, nella speranza di trovare un terreno maggiormente fertile alla realizzazione di se, altri, invece, decidono di rimanere ai margini del rigido sistema tradizionale, rifiutandosi di lavorare, di andare a scuola, di assumere un ruolo sociale, come i Neet7  e i Freeter8  (Junkerman, 2006). Altri ancora decidono di nascondersi, chiudono la porta e si rifiutano di lasciare la loro camera per mesi o anni.

Il Giappone ha cercato rifugio dall’avvento di un sistema mondiale globale e complesso, cercando di salvaguardare la propria rigidità ed emarginando ciò che considera strano, diverso o manifestazione di dissenso (Doi, 1971; Junkerman, 2006) impedendo così alle nuove generazioni di trovare strumenti nella propria cultura per rispondere agli interrogativi che la contemporaneità pone e perseguire la ricerca della felicità attraverso la coltivazione della propria individualità.

Questa generazione si trova ad affrontare in solitudine la sfida posta dalla ricchezza e dalla prosperità, quella di riflettere su che cosa la renda felice, cercando risposta ad interrogativi esistenziali sui significati e sull’affermazione di sé. Porsi queste domande comporta il mettere in discussione le finalità e i mezzi della propria società, ma il Giappone, a differenza di altri paesi, ha opposto una resistenza più tenace all’accettazione della diversità e a modalità alternative e personali di cercare le risposte.

Tutto questo si riflette nel fatto che il Giappone sia uno dei paesi ricchi con il più basso punteggio di benessere individuale, in cui il termine “autostima” non esiste (Zielenziger, 2006).

Coloro che decidendo di ritirarsi dalla società trovano estremamente difficile comunicare con il mondo esterno e costruirsi un proprio stile di vita che permetta loro di trovare collocazione in una società che non accetta la diversità e richiede di conformarsi alle regole per esserne parte. Questi giovani non scelgono l’auto-isolamento per indulgenza verso sé stessi, ma perché non vedono un’altra strada.

La tradizione confuciana del Giappone storicamente ha portato alla de-enfatizzazione dell’individuo a  favore  del  conformismo al  gruppo  al  fine  di  assicurare l’armonia collettiva in  una  società rigidamente gerarchizzata. In questo clima culturale chiamarsi fuori dal gruppo assume una connotazione estremamente negativa, per cui l’unica soluzione per questi adolescenti e per le loro famiglie coperte di vergogna consiste nel nascondersi (Holden, 1994).

Nella cultura giapponese l’acquisizione della propria identità avviene solo nell’interdipendenza con il  gruppo,  il  comportamento compiacente  finalizzato  a  mantenere  l’armonia  di  gruppo  viene incentivato fin dall’infanzia, a discapito di comportamenti maggiormente assertivi e improntati all’affermazione di  sé,  promossi  dalle  culture  e  dalle  modalità  di  educazione occidentali. La cooperazione di gruppo equivale ad un atto di affermazione di sé , la formazione di una propria identità è strettamente connessa alla propria identità sociale e dipende dalla capacità di creare e mantenere relazioni umane con i propri pari all’interno del gruppo (Holden,1994; Rohlen, 1989). La società  post-moderna  giapponese  è  orientata  al  buon  funzionamento  della  collettività  ,e,  per raggiungere questo obiettivo, ha strutturato un sistema educativo fondato sulla competizione e improntato all’individualismo. Per questo la popolazione giapponese è particolarmente incline alla minaccia del nichilismo in caso di fallimento nella soddisfazione degli alti standard imposti dalla società. In una società così strutturata, gli individui sono costretti a essere conformisti prendendo le distanze dal loro sé autentico e ponendo le proprie aspettative, desideri e sentimenti in secondo piano rispetto agli obiettivi ed alle richieste imposte dalla collettività (Masataka, 2002). Considerando l’importanza psicologica, sociale ed economica del gruppo nella società giapponese, non sorprende che un ragazzo che non si conformi alle aspettative venga visto come elemento negativo, meritevole di vergogna, che rifiuta l’arricchimento dato dalla partecipazione al gruppo. Esso è dunque considerato un fallito, che delude le aspettative della famiglia e dell’intera società.

“ Non si possono definire le ragioni” dice Sadatsugo Kudo, psicoterapeuta, “ ma si può definire il contesto: è il Giappone. Qui, devi essere come le altre persone, e se non lo sei, provi un senso di perdita, di vergogna. Così ti isoli. Quando sei diverso, fai il logico passo per l’ auto-preservazione. Scompari.”( Larimer, 2000).

Una componente chiave della depressione giovanile sembra essere rappresentata dalla mancanza di comunicazione che la società riserva ai giovani (Murakami,2000). In Giappone i bambini crescono passando da una condizione di onnipotenza e di attenzioni eccessive sotto la protezione dello stretto rapporto con la madre, ad una condizione adolescenziale in cui si è solo un numero nella società e la comunicabilità dei propri bisogni è assente poiché la società appare sorda, così sprofondano in una depressione acuta. Inoltre, i rituali tradizionali, che segnano il passaggio da un’età all’altra stanno scomparendo, e con essi anche l’unico sostegno collettivo a cui aggrapparsi. In ogni paese del mondo vi sono casi di malessere e depressione giovanile, ma, come evidenziato precedentemente, le risposte che solitamente i ragazzi danno sono risposte rumorose. In Giappone, invece, si sceglie l’apatia e la protesta silenziosa, segno che è meglio sparire che farsi notare per essere diversi dalla norma, non conformi alla massa (Zielenziger, 2006).

Nella struttura sociale giapponese, per questi ragazzi sensibili, intelligenti, che non riescono a fare parte della comunità, non c’è posto. Per quanto casuale possa essere la prima causa scatenante che porta all’isolamento, agli occhi della società e dei ragazzi diventa una realtà vergognosa e schiacciante. Come sostiene Kenji9, un ragazzo hikikomori, “ la maggior parte delle persone cerca solo di nascondere i propri sentimenti per andare d’accordo con gli altri […] Le persone normali hanno la capacità di occultare le proprie sensazioni reali solo per riuscire ad avere buoni rapporti con gli altri” (Zielenziger, 2006). Kenji utilizza il termine tatemae, che in giapponese indica l’abilità

di gestire una maschera falsa (Doi, 1971). Per gli hikikomori uscire di casa richiede un notevole coraggio, per la paura di incontrare qualcuno che li possa vedere ed essere causa di profondo disagio e terribile imbarazzo.  La necessità di mantenere le apparenze agisce da potente costrizione nella società giapponese, gli hikikomori e le loro famiglie sono spesso ossessionati da ciò che gli altri potrebbero pensare. Anche rinchiusi nella propria stanza, la società fuori è costantemente presente con il suo sguardo nei pensieri di questi giovani reclusi (Holden, 1994).

La società, oltre ad essere una causa di primaria importanza nel creare le condizioni che conducono molti giovani adolescenti a scegliere il ritiro sociale, contribuisce anche alla perpetuazione del fenomeno, rendendo estremamente difficoltoso per gli hikikomori, una volta allontanati dal mondo, rompere l’isolamento, concedersi e ottenere una seconda possibilità

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