I disturbi della personalità affliggono una fetta della popolazione generale tra il 4 e il 10%, nonché il 60% di quella clinica. Tra le diagnosi più frequenti troviamo il disturbo borderline di personalità, il disturbo paranoide di personalità e quello di personalità non altrimenti specificato. Secondo il DSM-5, con questa denominazione, indichiamo un pattern costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative generate dalla cultura e dal carattere dell’individuo. Il disturbo è pervasivo e inflessibile ed esordisce già nell’adolescenza o durante la prima età adulta. Si mantiene poi stabile nel tempo e dà origine a disagio e menomazione. Per riconoscere e attestare i disturbi di personalità esistono degli appositi test di valutazione. Nelle righe seguenti, vediamo quali sono e come funzionano.
La classificazione dei disturbi della personalità
Chi soffre di disturbo della personalità sperimenta una compromissione nella gestione delle relazioni interpersonali, in quella delle emozioni e nella percezione di ogni coerenza della propria identità. Clinicamente parlando, si distinguono diversi livelli di gravità. La psichiatria contemporanea suddivide, non a caso, l’insieme di queste condizioni in disturbi della personalità e disturbi gravi della stessa. Sebbene si contino numerose situazioni che rientrano nel termine ombrello di disturbi della personalità, generalmente li classifichiamo in tre gruppi:
- tipologia A: schizotipico, schizoide e paranoide. Una volta le persone contraddistinte da questa condizione erano definite bizzarre o eccentriche, oggi che questi termini sono entrati nel vocabolario con una accezione molto più generica, la disciplina utilizza il termine di stati psicotici;
- tipologia B: borderline, antisociale, narcisistico e istrionico. Questo insieme racchiude al suo interno le condizioni che un profano potrebbe definire imprevedibili, se non proprio teatrali, e che la psicologia definisce invece amplificative;
- tipologia C: evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo. i disturbi di questo gruppo si definiscono ansiosi, dal momento che generano ansie e angosce in chi ne soffre.
C’è qui da fare una specificazione. Tutti questi disturbi di personalità, anche quelli all’infuori della tipologia A, possono accompagnarsi a manifestazioni psicotiche, soprattutto se la persona è sotto stress o fa uso di sostanze per regolare, modificare o amplificare le proprie emozioni.
La distinzione, per tal motivo, non rappresenta categorie a tenuta stagna ma è da intendersi come indicazione generale, utile a raggruppare alcuni tra i più definiti disturbi della personalità che conosciamo.
I test di valutazione
Per valutare la sussistenza di un disturbo della personalità e stabilire quale sia quello che interessa il paziente (o, quantomeno, a quale famiglia di disturbi appartenga) bisogna sottoporlo a dei test. Le prove di valutazione sono di tre tipi. Accanto a queste, se ne stanno studiando altre che, al momento, sono però soltanto in fase di valutazione e non sono state ancora riconosciute dal massimo organismo mondiale che si occupa di psicologia, l’Associazione Psichiatrica Americana (APA, per American Psychiatric Association). I questionari e i test riconosciuti, approvati e somministrati quotidianamente, in tutto il mondo, sono i seguenti:
- l’MMPI-2, acronimo di Minnesota Multiphasic Personality Inventory;
- il MCMI-IV, o Millon Clinical Multiaxial Inventory;
- lo SCID-5-PD, un’intervista clinica vera e propria, strutturata secondo regole e principi espressi sul DSM-5.
Per ottenere una diagnosi di disturbo della personalità, si ricorre tipicamente al terzo dei test indicati. Le prime due prove, che sono dei questionari elaborati in maniera diversa, sebbene le risposte alle loro domande possano dare lo stesso risultato, si utilizzano principalmente per indagare la conformazione della psicopatologia della personalità. Naturalmente, sta allo specialista curante la selezione di quale dei tre test sia più indicato somministrare a ciascun individuo che presenti disturbi sospetti.
Il Dimensional Personality Assessment, una valutazione processuale per i disturbi della personalità
Il DPA, o Dimensional Personality Assessment, è un altro tipo di test. Lo si utilizza meno spesso dei tre già visti – e questo non deve stupire, dal momento che è ancora in fase sperimentale, sebbene i suoi risultati siano giudicati attendibili da ogni specialista – ma è destinato ad aumentare di popolarità. Lo stesso DSM-5, infatti, ne propone l’utilizzo, all’interno della Sezione III, quella dedicata alle proposte di nuovi modelli e strumenti di valutazione. Il DPA integra il punto di vista dimensionale e stacca dal tipico approccio categoriale che ha, da sempre, contraddistinto l’avvicinamento dell’APA alla disciplina che studia. Questo innovativo modello prevede 7 criteri generali per descrivere e individuare il disturbo della personalità. Il primo di questi si riferisce al livello di funzionamento del sé nei rapporti interpersonali. La scala di valutazione generata da questo test contempla 5 livelli di compromissione.
Il vantaggio del DPA è che può essere tranquillamente affiancato a uno qualsiasi degli altri test di valutazione sui disturbi della personalità. Spesso, aiuta a completare il quadro clinico associato a un’altra condizione psicologica. In aggiunta, può anche servire come indicatore globale del funzionamento della personalità per un soggetto che non abbia alcun problema all’interno di questo spettro. La versatilità di questo test è davvero elevata e il suo funzionamento trasversale lo rende un valido strumento nella ventiquattrore di psicologi e psicoterapeuti.
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