Cosa succede
Cosa succede in città
C’e’ qualche cosa
Qualcosa che non va
Guarda li’, guarda la’
Che confusione
Guarda li’, guarda la’
Che maleducazione…
( Vasco)
Qualche giorno fa sono andata per una visita medica presso un ospedale della zona.
In questo ospedale, quando facevo le elementari ho trascorso alcune settimane per un trattamento della scoliosi. A quei tempi la scoliosi era di moda, molti bambini ne soffrivano così come soffrivano di piedi piatti, denti storti, appendicite e tonsille infiammate.
Non so se la medicina si è evoluta, se la prevenzione è efficace, se si mangia meglio o meno o peggio di allora, ma di fatto queste malattie che hanno tormentato la mia generazione sono quasi sparite. Di fatto io avevo la scoliosi ed un luminare ortopedico mi ammoniva ad ogni visita dicendo che da grande sarei diventata gobba se non mi fossi curata, gettando i miei genitori in un comprensibile panico e generando in me una soggezione da martire.
Dovevo fare ginnastica specifica a casa, ma di tanto in tanto si usava, per chi aveva la scoliosi come me, trascorrere un periodo al mare, presso un padiglione specifico di questo ospedale dove oltre a portarci alla spiaggia, ci facevano fare terapia correttiva posturale.
Ricordo tutto ciò come un incubo.Per varie ragioni. Intanto perché figlia unica un po’ viziata, ero una mammona .
Poi perché non mangiavo fuori casa.Poi perché già allora ero poco socievole.
E poi soprattutto perché mi sentivo diversa dalle mie compagne, che dovevo lasciare nel bel mezzo dell’ anno scolastico per andare all’ ospedale senza essere ammalata.
Questo periodo della mia infanzia lo ricordo in modo chiaro, ricordo le emozioni che provavo, la solidarietà delle coetanee che trovavo lì, accomunate da questa disgrazia. Molte di loro si divertivano e la prendevano come una vacanza. Io no.
Il padiglione che ci accoglieva era attrezzato come un collegio, c’erano le suore e le signorine che credo fossero senza una qualifica specifica, poi c’erano le infermiere, le fisioterapiste ed i medici.
Ogni mattina si andava in palestra, poi a scuola se era il periodo, altrimenti alla spiaggia. Ci portavano al cinema, a passeggiare, ci accudivano con professionalità ed attenzione. Direi ora che quello era un reparto di eccellenza, con una alta specificità. Direi anche che la terapia che ho fatto mi è servita perché non sono diventata gobba, o forse non ho mai corso davvero questo rischio. Allora però ci si credeva.
Dicevo prima che per necessità l’altro giorno mi sono ritrovata a due passi da quel padiglione e mi è venuta voglia di andare a vedere. Salendo lungo i viali notavo edifici nuovi ed altri completamente abbandonati, con erba alta e finestre rotte. Quello dove ero io è uno dei più malandati .Ho stentato a riconoscere la vetrata della palestra, che una volta era tutta colorata e dipinta, il salone da pranzo, la zona delle camere. Tutto scolorito, abbandonato, tristemente buttato via. Così come tante palazzine li intorno. In compenso il plesso ospedaliero attuale è stato costruito di sana pianta qualche metro accanto.
Oppure è stato rimodernato ed appare di fatto efficiente e rassicurante come dev’essere un luogo di cura.
Mi è venuto alla mente il manicomio.
Quegli spazi disabitati che trasudano ancora di malattia e lavoro erano simili.
Erano entrambi spazi di discutibile forma di cura, di ambiguo e doloroso amore.Sono entrata in chiesa, quella è rimasta curata e calda, come era tempo fa.
Una signora metteva fiori freschi, come quelli che vedevo da piccola, dove tra le altre mie disavventure mi hanno vestita di bianco per un omaggio a Maria.Anche questo proprio lì.
Mi sono dunque avviata al reparto per terminare il mio esame medico.Prima sono passata al Cup per pagare il ticket.Una costruzione angusta, piena all’ inverosimile di gente, bambini , carrozzelle, anziani in coda.Di sei sportelli, solo due aperti.Un vetro rotto con su un cartello scritto a mano diceva “attenzione vetro rotto”.
Era così da tempo, visto che sul foglio qualcuno aveva scritto “allora riparatelo”. Ma perché?
Spontaneamente penso che questo sportello affollato potrebbe invece essere messo nel bel padiglione che ho appena visitato, in fondo sono solo due passi in più.Prima di andare alla visita vado in bagno.
Il bagno è per disabili, certo.Appena richiudo la porta dietro di me , vedo un cartello sempre scritto a mano che mi minaccia “non chiudere con la maniglia altrimenti rimani chiuso! La maniglia è guasta. In caso succeda tira la cordicella che veniamo ad aprirti”. Meno male che non sono claustrofobica! La cordicella non c’è… è strappata.
Con le mie mani da scimmia, come diceva mio papà, riesco a far girare la maniglia o meglio il moncone che ne rimane, ed esco.
Mi viene nello stomaco una grande tristezza, vedendo tutta questa devastazione, a fronte di un trattamento clinico specialistico che giudico ben fatto, professionale e tecnologicamente avanzato.
Ma perché? Me lo chiedo spesso il perché quando vedo queste contraddizioni, questa incuria e questo spreco.
E’ come se non avessimo memoria, non avessimo piu’ passione per cio’ che facciamo, non avessimo piu’ rispetto per noi stessi .L’abbandono e l’ incuria mi irritano e mi rattristano.
Penso ai nostri genitori ed ai loro padri; a chi ha lavorato tutta la vita senza mai godere di cio’ che ha prodotto, solo per lasciarlo a chi verrà dopo di lui.
Penso a chi credeva in un futuro migliore, ed ha pagato con la vita il suo crederci.
A chi è morto per un ideale.Agli ebrei, alle rivoluzioni contro le dittature, agli schiavi.
Ai nostri pazienti.
Loro sono ancora un po’ illusi, loro ancora pensano ad un futuro migliore.
Quando conosco un operatore nuovo, giovane, vorrei avere la capacità di insegnargli cio’ che ho imparato, vorrei che fosse curioso, modesto, rispettoso di cio’ che trova e desideroso di costruire.Molti lo sono e questo mi conforta.
Allora penso che i pazienti potranno ancora sperare.
Cosi’ come noi.