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Cosa porta al suicidio come gesto disperato di protesta

Per Platone e Aristotele era una fuga dalla realtà, per gli stoici uno strumento di difesa delle proprie convinzioni. Seneca lo definiva come la massima espressione di libertà, mentre nella società classica rappresentava un forte gesto di contestazione. Il Cristianesimo lo riteneva un’offesa a Dio, ma dall’Illuminismo in poi è stato studiato e approfondito. Comprendere però cosa porta al suicidio resta impresa molto ardua. Si tratta di un fenomeno complesso, che ha attraversato le epoche, considerato ora un gesto insano, ora, invece, un atto di coraggio. Un argomento delicato da affrontare e di grande complessità, a partire dalle sue molteplici cause, il cui comun denominatore si trova in un senso di protesta, da declinare in diverse direzioni. Perché, come compreso per primo dal padre della sociologia, Émile Durkheim, dietro il suicidio, prima di uno squilibrio psichico, esiste una rottura di tipo sociale.

Cosa porta al suicidio, l’anomia e la sua radice sociale

È proprio Durkheim, nel suo “Il suicidio. Studio di sociologia” del 1897, a mostrare come i fattori sociali possano esercitare un’influenza decisiva nella decisione di togliersi la vita. Questa teoria prende il nome di “anomia” e rappresenta la rottura degli equilibri della società e lo stravolgimento dei suoi valori. Confutando le spiegazioni del suicidio di tipo psicologico, pur ammettendo la possibile esistenza di una predisposizione, l’anomia ne dimostrerebbe la causa sociale.

In generale, tuttavia, secondo lo stesso Durkheim, sarebbero quattro le tipologie di suicidio:

  • egoistico: causato dalla solitudine con la quale la persona non integrata socialmente si trova a confrontarsi con i problemi quotidiani
  • altruistico: causato da un’eccessiva integrazione con il tessusto sociale, che porta la persona a sacrificarsi nel rispetto del suo ruolo
  • anomico: causato dal ciclo economico, tra sovrabbondanza e depressione. Per questo identificato come tipico delle società moderne
  • fatalista: causato da un eccesso di disciplina e regole sociali, che soffoca qualunque spazio di desiderio

Motivazioni e cause diverse, ma accomunate dall’identificarsi in un ultimo, disperato, gesto di protesta piuttosto che di autocommiserazione. Protesta contro la solitudine, contro il rigore degli schemi sociali, contro una società regolata dall’ossessione per l’economia e il controllo, nella quale talvolta non è così facile integrarsi e riconoscersi.

Un gesto disperato di protesta

Il fenomeno del suicidio, d’altro canto, è stato così definito da Karl Jaspers: “Una forma di protesta e di sfida”, in una estrema riaffermazione della propria autonomia e libertà di scegliere se stessi. Il suicidio è sempre un gesto estremo e disperato, ma lo è ancor di più nel momento in cui diventa una atto contro potenze sovrastanti. Attraverso l’atto di togliersi la vita si prende consapevolmente la decisione paradossale di scegliere se stessi attraverso il desiderio della morte.

È ancora Jaspers, nell’ambito del suo approccio fenomenologico, a distinguere l’agito suicidiario in due differenti tipologie:

  • suicidio “da irretimento”
  • suicidio “incondizionato”

Il primo è di fatto un atto determinato, in quanto l’individuo si ritrova prigioniero dei “nodi dell’esistenza”, come nei casi di un crollo finanziario o di pulsioni suicide scaturire da passioni, vendetta o umiliazioni. Il secondo invece si autodetermina, in quanto atto libero e incondizionato, e rappresenta una scelta esistenziale da parte di un individuo che, per diverse ragioni, ritiene la vita insopportabile.

Cosa porta al suicidio, una spiegazione diversa

Al di là dell’apologia zarathustriana, che lo ritiene la miglior forma di morte in quanto dipendente dalla volontà, il suicidio resta una categoria dell’umano avvolta da mistero e ambiguità. Lungi dal poter essere ridotta ad una sindrome, piuttosto che un disturbo, e men che mai associabile ad una malattia mentale, la scelta di una morte libera, pur riconoscendone la matrice psicopatologica, è piuttosto propria di una dimensione antropologica. In quanto situazione limite di un’ambiguità esistenziale, il suicidio sfugge a classificazioni e categorizzazioni, a semplificazioni e scorciatoie.

Impossibile identificare il suicida o cercare di catalogare il gesto più individuale che si possa concepire. La storia è piena come abbiamo visto di esempi che sfuggono a spiegazioni banalmente sociologiche, a sbrigative eziologie, piuttosto che a nessi causa-effetto forzati. Il sucidio come gesto disperato di protesta rappresenta una forma di rivolta contro lo sfinimento della vita umana, ridotta ormai a puro bisogno di corpo e carne, in una vuota rincorsa al consumo e all’edonismo. Uccidere se stessi per richiamare l’attenzione diventa allora una forma di lotta non violenta, che matura come forma di ribellione a una condizione ritenuta incompatibile con la vita.

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