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Comportamentismo: dagli inizi alle sue applicazioni

Il comportamentismo è una risposta, certamente discutibile, a fondate considerazioni epistemologiche. Oltre un secolo fa un giovane Karl Jaspers, allora giovane psichiatra operante nella Clinica del grande neurologo e istologo Franz Nissl, scriveva il suo fondamentale testo “Allgemeine psychopathologie”: opera ovviamente, e come il resto della sua susseguente opera filosofica, tutt’altro che comportamentistica. Tuttavia faceva rilevare, nella sua introduzione metodologica, che nulla conosciamo direttamente dell’esperienza interna vissuta dal nostro interlocutore: la desumiamo da come egli la esprime e traduce in parole, più o meno fedelmente, volutamente e chiaramente; nonché dai fenomeni somatici collegati e che in qualche modo la esprimono, come sudore, respiro affannoso, tremori… manifestazioni che alimentavano quella che è stata definita “macchina della verità”.

Da ciò, e dal raffronto con la nostra esperienza interna che ragionevolmente riteniamo strutturata come la sua, ci facciamo un’idea del suo Erlebnis: vera? sbagliata? fino a che punto? Di quel che pensiamo di rilevare, quanto è suo e quanto nostro? Può venir voglia di attenerci solo a ciò che vediamo.

Gli inizi del comportamentismo

Su basi teoriche di questo tipo, nella prima metà del novecento nasceva il comportamentismo. Le sue lontane premesse rientrano in un’ottica scientifico-naturale classica, quella i cui parametri sono stati delineati in modo fin troppo reciso, sei secoli fa, da Francis Bacon: Il nostro metodo di invenzione è tale da non lasciare molto spazio all’acutezza e alla forza degli ingegni ma da eguagliare quasi gli ingegni e gli intelletti. Come infatti nel tracciare una linea retta o un cerchio perfetto molto dipende dalla fermezza e dall’esercizio della mano, se si disegna a mano libera, e invece queste qualità contano poco o nulla se si fa uso della riga o di un compasso, così è il nostro metodo.

Metodica dunque totalmente obbiettivante e spersonalizzante, che certamente ha dato i suoi frutti nella evoluzione scientifico-conoscitiva e tecnologica che ha trasformato la nostra vita. Un preciso invito alla standardizzazione e alla replicabilità quali garanzie del vero.

Il comportamentismo cerca di trasferire alla psicologia e alla psichiatria questa ottica, in modo criticabile anche se meno estremo, e tende di conseguenza a mantenere stretti rapporti con la psicologia sperimentale. Evidente, in particolare, la discendenza dalla reflessologia pavloviana. Da qui una visione della mente, e dei suoi rapporti con il corpo, schiettamente  meccanicistica; pur se anche questa visione tende a modificarsi seguendo i mutamenti di quella disciplina – guida che è la fisica, da qualche tempo sempre meno deterministica e più probabilistica.   

I limiti del comportamentismo

Il comportamentismo puro e duro ha mostrato notevoli limiti: si è cercato quindi di allargarne il raggio associandolo con il cognitivismo, modalità che punta a esaminare e, al caso, modificare, il tipo di conoscenza che il paziente ha  ed esprime circa sé e la realtà esterna, soprattutto umana.

Le prassi terapeutiche conseguenti sono oggi, in grande prevalenza, non strettamente comportamentali bensì cognitivo-comportamentali.

Differenze tra comportamentismo e psicanalisi

Evidente la differenza di impostazione con la psicanalisi, la cui vocazione è il risalire a ciò che sta dietro al comportamento; tuttavia non sono mancati momenti di avvicinamento. Una dimensione importante è la c.d. child observation, fra i cui esponenti piace ricordare Donald Meltzer: mantenendo, è chiaro, l’impostazione psicoanalitica,  essa ha qualche legame con il comportamentismo poiché si fonda sulla osservazione dei comportamenti infantili, verbali o meno,  più che sulla traccia che le esperienze connesse lasceranno nell’adulto.

Nasce il problema – centrale – di definire le relazioni fra le attività motorie rilevate, le esperienze emozionali e quelle conoscitive. Autori come Bowlby con la sua teoria dell’attaccamento hanno cercato di definire sistemi di controllo del comportamento, anche nelle loro relazioni con attivazioni emozionali specifiche e nel loro significato e finalità più o meno consapevoli. Il prototipo ne è l’attività di attaccamento (dall’evidente significato anche evoluzionistico).  In questa corrente di pensiero, all’attaccamento sicuro, fisiologico e adeguatamente finalizzato, se ne possono contrapporre o affiancare e alternare altri meno adattivi: ansioso-resistente, evitante, disorientato-disorganizzato.

 È chiaro che qui ci si allontana da una impostazione angustamente scientistica.

Aggiungerei che oggi la via indicata da orientamenti teorico-sperimentali come quello dei neuroni specchio mostra la possibilità di ridurre lo iato fra il vissuto mentale e il dato osservazionale somatico, anatomofisiologico.

Comportamentismo: dagli inizi alle sue applicazioni

La psicoterapia cognitivo-comportamentale

La psicoterapia cognitivo-comportamentale trova oggi grande diffusione, grazie alla limitata durata media dei trattamenti e alla possibilità, a ciò connessa, di verificarne i risultati.

È vero che non mancano i tentativi di verifica anche delle più protratte e meno standardizzate psicoterapie a indirizzo psicoanalitico: ricordo a titolo di esempio una metaanalisi apparsa nel 2009 su JAMA, organo ufficiale della American Medical Association. Selezionava 23 studi, ampi, documentati,  rispettosi  degli usuali requisiti di validità statistica, per un totale di oltre mille pazienti: i risultati parlavano per  l’efficacia di una terapia a lungo termine – almeno un anno – a indirizzo psicodinamico.

Ma si è trattato di iniziative sporadiche. Ciò, credo, è dovuto alla grande complessità di accertamenti di questo tipo, e forse anche alla comprensibilmente scarsa simpatia degli psicanalisti per le statistiche. Ciò ha penalizzato questo tipo di intervento sul piano della fruibilità, poiché è garantito con difficoltà dal Servizio Pubblico, e anche dal sistema nordamericano basato su rimborsi dalle Compagnie di assicurazione: queste vogliono sapere con certezza come spendono il loro danaro (possibilmente non troppo).    

I report su terapie cognitivo-comportamentali

Si moltiplicano invece nella letteratura i report su terapie cognitivo-comportamentali, con le più diverse indicazioni: disturbi dello spettro autistico, ossessivo-compulsivi, turbe del sonno, turbe dell’umore, turbe di personalità, comportamenti autolesivi,  disturbo postraumatico da stress…. Oppure semplicemente miglioramento del benessere generale, disturbi da menopausa, o aiuto in qualche specifica difficoltà di vita; o ancora affezioni somatiche o somatoformi come l’ipertensione, l’epilessia, le turbe intestinali… E si potrebbe continuare.

Per aiutare nella valutazione della diffusione di queste terapie: quello che ho offerto ne è un minimo campione, risultato dell’esame di 40 voci su pubmed (su un totale di 265.032!!!) 

Si tratta di interventi mirati a un sintomo, identificato e isolato in un’ottica parcellizzante e obbiettivante: come tali, possono avere una utilità sintomatica.

Ben più incerto, ovviamente, il ruolo di questi interventi nelle condizioni psicotiche di vario tipo: lo dimostra la letteratura. Una metanalisi apparsa  abbastanza di recente su Schizophr. Research (Agosto 2020) porta a conclusioni dubitative e invita a ulteriori accertamenti. Non c’è da stupirsene, poiché la psicosi, coinvolgendo evidentemente in modo globale la persona nella sua relazionalità, non ammette interventi parcellizzati,  obbiettivanti, di corto respiro.

Senza negare la possibile utilità sintomatica di questo indirizzo per disturbi in apparenza circoscritti, esso non può affascinare chi è interessato non tanto al sintomo quanto al paziente come persona, nella  complessità della sua collocazione relazionale, sociologica, antropologica, dei suoi bisogni vitali.

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