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Adolescenti in comunità: il panorama attuale

Adolescenti in comunità: l’adolescenza è un periodo complesso della vita caratterizzato da numerosi cambiamenti fisici, emotivi e sociali, durante il quale il giovane si trova ad affrontare importanti sfide evolutive.

Nel caso in cui il Sé non sia riuscito a maturare adeguatamente però ci ritroviamo di fronte a ragazzi in grande difficoltà, con un livello di autostima molto basso e privi degli strumenti necessari per affrontare il mondo che li circonda, i pericoli, le scelte, le relazioni e la sessualità. L’adolescenza è anche il periodo in cui i ragazzi tentano di sfidare i limiti e le regole posti in famiglia, ma non solo, basti pensare alle pericolose “challenge” che vengono avviate “per gioco” o ai contenuti di ogni genere che ormai vengono liberamente postati sui social media. Il giovane adolescente, infatti,
ricerca spesso l’approvazione all’interno del gruppo dei pari tramite i contenuti postati su internet, con il rischio di non piacere abbastanza e sentirsi rifiutato, poiché non abbastanza “performante”.

Il bullismo e il cyberbullismo

Nei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo la crudeltà con cui vengono umiliati e denigrati alcuni ragazzini e ragazzine raggiunge il suo culmine e l’essere estromessi dal gruppo dei pari può avere effetti devastanti sul loro benessere psicologico: può originare isolamento, ritiro sociale e scolastico (anche nel mondo virtuale dei videogiochi), ansia e crollo del senso di autoefficacia, oppure situazioni in cui il corpo diventa il bersaglio di comportamenti autodistruttivi (condotte autolesive, comparsa di sintomi e disturbi alimentari, condotte promiscue e uso di sostanze alcoliche e stupefacenti). Il terapeuta che si relaziona con un adolescente si trova quindi a fare interventi estremamente delicati perché si tratta di soggetti molto fragili.

Il panorama italiano negli ultimi anni appare sempre più complesso, viviamo in una società che muta velocemente e la richiesta di intervento è sempre più urgente e precoce. Dai recenti dati raccolti nelle nostre strutture, infatti, emerge chiaramente come il numero di richieste di inserimento
in comunità per minori da parte dei servizi territoriali sia fortemente aumentato, portando alla luce soprattutto due aspetti importanti: è aumentato molto rispetto al passato il numero di ragazze inserite e si è abbassata l’età per cui le famiglie si rivolgono ai servizi specialistici per i loro figli.

Adolescenti in comunità

I ricoveri ospedalieri in molti casi precedono gli invii degli adolescenti in comunità e riguardano ragazzine sempre più giovani, che presentano un’importante componente depressiva e ideazione suicidaria e talvolta hanno anche già messo in atto gravi agiti anticonservativi, per cui si rende necessario un intervento tempestivo, che porta i servizi territoriali a saltare dei passaggi intermedi che fino a qualche anno fa erano quasi naturali: interventi ambulatoriali, proposte terapeutiche sul territorio e inserimento in centri diurni o strutture di tipo educativo. I servizi sociali o di neuropsichiatria infantile, che si occupano di formulare un piano di intervento, recentemente sono spinti sempre più dall’urgenza a causa dello scoppio quasi improvviso di situazioni di estrema sofferenza.

Mi sono interrogata spesso sulla correlazione tra l’incremento di tali richieste di aiuto e la recente pandemia, che credo abbia contribuito ad alzare il sipario, mostrandoci come il livello di insicurezza negli adolescenti si sia acuito, generando un malessere profondo espresso con modalità depressive più o meno intense e con l’esplodere di conflitti nascosti in famiglia. La pandemia ha avuto sicuramente un impatto pesantissimo se pensiamo a quanto questi ragazzini abbiano sofferto la solitudine e la mancanza di rapporti; per coloro che presentavano già problemi di attenzione e concentrazione poi la DAD non è stata di aiuto, per cui si sono verificate interruzioni o abbandoni scolastici, come abbiamo potuto
osservare con gli inserimenti in comunità avvenuti negli ultimi anni.

Le difficoltà di diagnosi

Quando si parla di minori si apre il problema relativo alla formulazione della diagnosi, ma rifugiarsi nella categoria diagnostica per impostare il trattamento più adeguato spesso non è quello che viene naturale fare all’interno di una comunità o almeno questo non è sufficiente. La possibilità di cura si trova innanzitutto nella relazione terapeutica che si instaura con l’adolescente e nella capacità di comprendere il suo funzionamento mentale. Non ci si sofferma quindi sulla diagnosi in sé e per sé, ma piuttosto sull’organizzazione di personalità del ragazzo.

Nel panorama attuale e all’interno delle nostre strutture per esempio si parla spesso di pazienti che presentano un “funzionamento di personalità borderline” ovvero caratterizzati da una forte disregolazione emotiva. Si tratta di ragazzi ipersensibili agli stimoli esterni, perché hanno continuamente bisogno di una conferma per capire come muoversi nel mondo e non sentirsi esclusi, ma la mancanza di un’adeguata autostima impedisce loro di creare relazioni stabili e significative. Tali ragazzi provano emozioni intense, cui seguono spesso risposte impulsive come tentativo di autoregolazione e il loro bisogno di dipendenza dall’altro genera continuamente sentimenti di vergogna e paura abbandonica. Talvolta i loro comportamenti rischiano anche di essere giudicati facilmente senza considerare che dietro si nasconde una grande sofferenza, per cui corrono il rischio di non riuscire a rispondere alle aspettative dei genitori o della scuola.

Le soluzione che trovano gli adolescenti in comunità

Tra le soluzioni che questi ragazzi sperimentano, come detto prima, ci sono le condotte autolesive fino ad arrivare ai tentativi di suicidio, la ricerca smodata di affetto con comportamenti promiscui, l’uso di sostanze e i disturbi alimentari, ma si tratta di
tentativi disperati per riuscire a tollerare il loro stare al mondo con strategie che leniscono lì per lì il senso di vuoto identitario e l’angoscia che li pervade.

In comunità accogliamo quindi adolescenti profondamente sofferenti, che presentano quadri clinici complessi e spesso sono incapaci di riconoscere e gestire le emozioni che sperimentano. La sfida per noi operatori consiste nell’aiutarli ad acquisire consapevolezza rispetto al loro stato emotivo, ma
anche nel riuscire a tirar fuori le risorse e abilità nascoste, produrre un cambiamento e un benessere, che permetta a questi giovani pazienti di essere reinseriti in famiglia e reintegrati nella società.

La curiosità e l’entusiasmo sono due ingredienti indispensabili nella nostra professione, che permettono di portare avanti il lavoro quotidiano, anche nelle situazioni di maggiore fatica e frustrazione, perché si deve ammettere che lavorare in una comunità per minori spesso può risultare un’impresa assai ardua. Il dolore riportato da questi ragazzi è collegato, in vari modi e misure, al processo di crescita, per cui è essenziale impostare il percorso di cura con un occhio di riguardo verso il futuro e il lavoro del terapeuta credo sia sostenere l’adolescente senza invadere la sua nascente sfera di autonomia, dandogli la possibilità di fare propri gli strumenti necessari per la sua crescita e sviluppare un senso di sicurezza, che gli sarà utile nel corso di tutta la sua vita.

I problemi di approccio agli adolescenti in comunità

Il problema però che si pone spesso è quello di individuare la giusta distanza: è difficile infatti stabilire il giusto confine ed è inevitabile trovarsi a valutare come dosare la propria presenza nel rapporto che si insatura con il giovane ospite. In molti casi i minori che vengono inseriti in struttura
arrivano profondamente arrabbiati per l’esperienza vissuta fino a quel momento, ma anche perché le persone più significative per loro sono venute meno nello svolgere il loro ruolo genitoriale e si ritrovano affidati a professionisti, che ovviamente per loro, in un primo momento, sono solo degli
estranei ed è difficile costruire un’alleanza terapeutica. In altrettanti numerosi casi questi ragazzi sono spaventati, disillusi, sembra quasi che non vogliano cambiare né stare meglio e quindi è fondamentale far notare loro ogni piccolo cambiamento, per far capire che il presente potrà somigliare sempre di meno al passato e che “la strada non è già segnata”; in questi pazienti è indispensabile far sì che compaia il desiderio di stare meglio, perché corrisponde al primo passo nel percorso di guarigione, ma è un processo che spesso richiede tempo.

Le diverse domande di cura

La domanda di cura spesso non è univoca, ma molteplice: al centro abbiamo il minore con una propria richiesta di aiuto e una motivazione più o meno presente, a seconda del proprio grado di consapevolezza, poi abbiamo i servizi territoriali e infine le famiglie, che possono assumere una posizione collaborante oppure ambivalente, possono esprimere priorità diverse rispetto a quelle presentate dai servizi invianti o ancora sperano nella “guarigione immediata” del figlio/a. Il nostro compito, lavorando all’interno delle comunità, credo sia quello di fare in modo che tutte queste voci possano dialogare in maniera più allargata e più funzionale per occuparsi del minore con l’obiettivo di curare il sistema familiare nel suo insieme e promuovere la salute del giovane.

Il disfunzionamento familiare

Non dobbiamo mai dimenticare che gli adolescenti sono portatori di una sofferenza, che in realtà è in qualche modo l’espressione del più generale disfunzionamento familiare: spesso si tratta di famiglie disgregate, disperate, espulsive, trascuranti. E’ importante quindi tenere conto non solo del giovane cha approda in comunità, ma anche del contesto familiare da cui proviene, mettendo in atto terapie strutturate adeguatamente: introdurre la terapia multifamiliare all’interno delle nostre strutture, per esempio, è stato un passaggio importantissimo.

Ho fatto riferimento spesso alle sfide difficili a cui si va incontro, sia quelle che affrontano i nostri ospiti adolescenti sia quelle che coinvolgono noi operatori di comunità e ritengo che proprio di fronte a sfide così importanti, noi “addetti ai lavori” abbiamo una grossa responsabilità nei confronti di questi giovani ragazzi. Un buon intervento di psicoterapia con l’adolescente contribuirà a migliorare il suo benessere emotivo e relazionale anche in età adulta, per cui il nostro obiettivo consiste nel cercare il più possibile di intervenire precocemente e tempestivamente.

L’aiuto che può dare la comunità terapeutica

L’idea della comunità terapeutica per minori d’altronde segue proprio tale binario, con l’obiettivo di curare gli adolescenti in comunità, ma in un’ottica preventiva, per evitare di incorrere e dar vita a quelle situazioni di cronicità tipiche dell’età più avanzata. Ho sempre pensato che chi lavora nelle comunità abbia la possibilità di osservare da un punto di vista “privilegiato” il paziente, perché ha una visione “a tutto tondo”, dettata dall’osservazione quotidiana e molteplice, poiché si raccolgono i punti di vista dell’intera équipe e reputo ciò una grandissima risorsa. Il nostro compito è quello di fornire quella rete di protezione all’adolescente che lo faccia sentire al tempo stesso sicuro ma non imprigionato e che lo prepari affinché possa uscire nel mondo circostante ben equipaggiato nel momento più opportuno.

Per concludere con una nota positiva, rifacendomi ancora una volta ai dati raccolti recentemente, penso che la direzione in cui ci stiamo muovendo sia quella giusta, considerando che negli ultimi anni le dimissioni dalle nostre strutture per minori sono coincise frequentemente e molto più che in
passato con un rientro presso la propria famiglia di origine.

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Commenti su "Adolescenti in comunità: il panorama attuale"

  1. Mi sembra un articolo molto interessante perché tocca un punto fondamentale che sintetizzerei così: ma come è che operatori che, almeno inizialmente, risultano poco più che degli estranei, riescono a far sentire i pazienti meglio che a casa loro?
    Perché la CT, molte volte, non sempre, permette loro di recuperare un minimo di fiducia nelle proprie capacità, che avevano perduto in famiglia? Mi piacerebbe che si aprisse un dibattito a più voci su questo tema. Secondo me, perché gli operatori della CT, nel loro complesso è da parte di ognuno, costruiscono con i pazienti relazioni autentiche, alla pari, basate sul rispetto reciproco e chiedono e, la maggior parte delle volte ottengono, risposte simili dai pazienti.
    Il che conferma che l’aspetto patologico riguarda essenzialmente la tipologia delle relazioni che vivono a casa e che torneranno a vivere quando escono dalla CT. A meno che, fin dall’inizio della permanenza dei pazienti in CT non si inizi a lavorare con le loro famiglie, per cambiare quelle relazioni patologiche familiari, altrimenti, quando tornano a casa, i problemi per loro ritorneranno…

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