Commento all’articolo: “L’allarme degli USA. Di solitudine si muore. E’ la nuova epidemia” apparso su La Repubblica il 3 maggio 2023
Credo che un buon punto di partenza ce lo fornisca proprio Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista che in questo articolo propone una distinzione fra solitudine e isolamento.
Naturalmente, l’attribuzione di significato a un determinato termine consente una certa elasticità e soggettività: ma i due vocaboli di cui parliamo vengono a proposito per identificare e distinguere due condizioni che non sono affatto uguali.
Possiamo chiamare isolamento quello che domina nella “folla solitaria” di cui decenni fa ci ha parlato David Riesman: si può esser isolati pur restando gomito a gomito con tanti altri individui. Heidegger definisce questa condizione “mancanza del propriamente con – esserci”, che (si potrebbe così intendere) toglie qualcosa all’ “esserci”.
E potrei chiamare invece solitudine quella dell’eremita, del monaco, di Cristo nel deserto, dell’uomo di scienza o di cultura che anche da solo mette a punto teorie e riflessioni; ma pure dell’uomo comune, quando anch’egli si pone alla ricerca solitaria di un senso nella propria vita. Icastica la definizione di Gadamer: “l’isolamento si subisce, nella solitudine si cerca qualcosa”. Certo, questa condizione non può divenire permanente.
Infatti, è comunque nella comunità che l’individuo sopravvive; la nostra identità si costruisce nel rapporto, e continua ad esserne rafforzata o modificata. Quindi l’isolamento di cui ci parla il Dr Murthy è anche crisi di identità, contribuisce a quella crisi del soggetto che ci indicano i filosofi.
Passando a un piano individuale e psicopatologico: una tipica condizione di isolamento che si collega a svuotamento di senso è la melancolia: ce ne hanno parlato, fra gli altri, persone come Callieri e Borgna. Non sappiamo abbastanza sulla casistica propostaci da Vivek Murthy, per verificare quanto vi sia di psicopatologia individuale e quanto di patologia sociale nella sofferenza della persona isolata: credo verosimile che le due dimensioni si potenzino reciprocamente, in un feed back negativo.
Dello stato d’animo depressivo può far parte la nostalgia, che tuttavia può avere un senso terapeutico, come capacità di non perdere il legame con ciò che è trascorso: esemplare quanto ha scritto Proust.
Quella proposta da Murthy è una dimensione storica: egli ci dice che l’isolamento sta crescendo. Ciò ha a che fare con la postmoderna crisi dei valori condivisi, collegata alla attuale fase critica dello sviluppo capitalistico, privatistico o statale che sia? In particolare, la competitiva ideologia dell’uomo solo al comando sta mostrando la corda anche perché sentiamo quanto contribuisca all’isolamento?
E quanto gioca il crescente orientamento relativistico, che ci priva di rassicuranti punti di riferimento? Lo criticava Ratzinger, ma anche la fede religiosa pare abbia cessato di essere un approdo sicuro, almeno per i più. E quanto incide l’imperante iperframmentazione culturale? Ha avuto ragione Annibale Salsa quando definiva l’isolamento come manifestazione patologica di una cultura intrinsecamente malata?
In apparente contrasto con la denuncia di Murthy è il moltiplicarsi attuale delle forme di comunicazione, anche (e anzi ormai forse prevalentemente) a distanza. E’ del tutto superfluo elencarne le tante modalità e la pervasività che ha indotto Zygmunt Bauman a parlare di “sorveglianza nella società liquida”.
Forse questo termine vagamente persecutorio, scelto ovviamente non a caso, ci indirizza a capire perché il moltiplicarsi di messaggi non pare ci aiuti a sentirci meno soli: la sorveglianza è asimmetrica, non ammette scambio, comporta comunque un vissuto di distanza e distacco dall’interlocutore, di anonimato, di freddezza. Forse non si sente di aver a che fare con persone, in un rapporto di reciproca vicinanza e comprensione?