Durante un giro di commissioni entro in un negozio di ottica in cerca di un paio di occhiali da sole. Comincio a guardare tra gli scaffali e noto un modello di Ray Ban. Subito interviene la commessa: “sono di nuova generazione, con la telecamera incorporata”. Telecamera? E dove?
Solo allora noto due pallini agli angoli. Niente di più. “Nascono da una collaborazione con Facebook, ora diventata Meta” Continua entusiasta la commessa “Puoi scattare foto, registrare video, rispondere alle chiamate e ascoltare musica, tutto tramite gli occhiali”.
Figo, il mio primo pensiero. Poi scatta la paranoia. Perché fino ad oggi pensavo che se qualcuno mi stesse filmando me ne accorgerei, ora non più.
Eppure me lo sarei dovuta aspettare, sono tutte cose che oramai facciamo con gli auricolari bluetooth, con gli orologi, con i cappelli. Perché non con gli occhiali? Ma da dove nasce il desiderio di condividere ogni attimo di vita? Quasi come se una qualsiasi esperienza non fosse più soggettiva, ma diventi reale solo se condivisa, apprezzata, invidiata.
Personalmente ho un rapporto estremamente ambivalente con tutto questo. Amo condividere un bel paesaggio, adoro l’alba, il tramonto, il mare. Non voglio che i miei contatti sappiano dove sono in ogni momento. Non credo che un istante perda di senso se non viene mostrato a tutto il mondo. Ma so di essere una minoranza. Minoranza, di fatto, estremamente incuriosita dai meccanismi della maggioranza. Come l’attrice invitata sul palco più famoso d’Italia che si porta il cellulare e filma tutto invece di godersi un’emozione che forse non ricapiterà più. E che, forse, non è uguale vissuta in un secondo momento tramite il video.
La tecnologia è in piena evoluzione e corre veloce, forse troppo. Mi affascina se penso di aver fatto parte forse dell’ultima generazione che ha cominciato a uscire senza cellulare, che si è persa incontri perché i piani sono cambiati e non si poteva avvisare, che si litigava con i fratelli l’uso del telefono fisso e che si faceva gli squilli per dirsi ti penso quando i primi messaggi costavano cari.
Ma non vorrei tornare a quel tempo. La comodità di cercare su google la ricetta della pasta al forno piuttosto che un negozio di orologi in una città a te sconosciuta è ormai per me fondamentale. Come l’impagabile emozione che ho provato nel costruire un dettagliatissimo pianoforte LEGO collegato al cellulare e sentirlo suonare quasi fosse vero.
Senza contare le possibilità di cura, non solo dal punto di vista medico o chirurgico, ma anche psicologico. Per diverso tempo ho lavorato per capire se i sexbots possano essere utili negli interventi con gli autori di reato sessuale, e credo che le applicazioni positive possano essere inimmaginabili.
Ma. Recentemente ho letto un articolo inerente un nuovo progetto chiamato “Re;memory” nato in Corea. Una persona che sa di non avere ancora molto tempo da vivere trascorre diverse ore davanti a una telecamera, il software apprende il modo di parlare, l’intonazione della voce, la gestualità, e ne crea una versione virtuale. Dopo la morte, i familiari saranno così in grado di interagire con il defunto tramite videochiamate. Ovviamente a un costo altissimo.
Al di là del costo. Siamo proprio sicuri che questo aiuti le persone a superare il lutto? Oppure le blocca in un’illusione di avere, ancora, la possibilità di poter vivere qualche attimo con il proprio affetto. Chi di noi ha avuto un lutto importante nella propria vita, dopo averlo affrontato vorrebbe davvero parlare con un computer che fa rivivere un ricordo doloroso e non più reale? Probabilmente si arriverà ad implementare tutto questo con un corpo meccanico che potrà abbracciare, toccare, accompagnare. Ma è davvero la strada più giusta?
Personalmente, continuerò a leggere, imparare e sperimentare la tecnologia quanto più possibile per rimanere al passo. Ma senza stare in prima linea e continuando a proteggere le mie passioni non digitali, come i libri di carta e le cene in compagnia.
Riconoscere e nominare le emozioni.
Tempo fa feci dei seminari con alcuni collaboratori su questo tema
Apparve evidente la necessità di confrontarsi con il proprio mondo interno e l’intimità che da esso deriva
Il richiamo di Marianna Dotta ci aiuta in tal modo per non perdere il senso e il significato delle nostre relazioni