Commento all’articolo apparso su La Repubblica, il 15 maggio 2018
L’aumento di certe patologie psichiche non è da negare, ma il tema merita un approfondimento metodologico.
Bulimia, anoressia, gioco d’azzardo compulsivo, attacchi di panico, dipendenze da tecnologie varie non possono esser definiti fatti nuovi e un tempo impensabili: forse ciò è possibile per l’ultima di queste voci perché impensabili 40 fa erano le nuove tecnologie.
E’ difficile stabilire affidabilmente la reale entità dell’incremento di queste patologie, perché è troppo cambiato il contesto tecnico, non solo quello sociale.
Prima della riforma, lo sappiamo, la psichiatria pubblica era costituita solamente dagli apparati manicomiali: il solo intervento ambulatoriale era costituito dai Servizi di Igiene Mentale che – malgrado il nome paresse alludere a un impegno nella prevenzione – erano fondamentalmente una appendice dei Manicomi, di una qualche limitata utilità nel contenerne il sovraffollamento.
Queste strutture non si occupavano delle patologie citate nell’articolo, perché l’impatto sul comportamento non era tale da imporre il ricovero. Per il gioco d’azzardo, quando comprometteva il patrimonio familiare, il “rimedio” più comune era l’interdizione.
Anche gli altri disturbi citati nell’articolo – disturbi nevrotici, ossessivo-compulsivi, da attacchi di panico, ansia generalizzata, fobie – non comportavano di solito la risposta manicomiale, proprio perché costituivano sofferenze individuali non implicanti disordine sociale e pericolosità.
Erano un fatto privato, che tale restava: l’interesse delle strutture manicomiali a non sovraccaricarsi di degenti colludeva con il netto rifiuto dei pazienti “nevrotici” ad esser confusi con i “matti”; ed è meglio che sia stato così, data l’inidoneità dell’ambiente manicomiale a costituirsi come terapeutico.
Quale era dunque la risposta? Una minoranza privilegiata economicamente e culturalmente si rivolgeva alla psicanalisi, che dal canto suo si teneva allora ben lontana dall’impegno istituzionale.
La classe media si rivolgeva a specialisti privati, soprattutto per prescrizione di farmaci. L’eventuale ricovero trovava sede in reparti ospedalieri definiti neurologici ma che in realtà si occupavano anche della “piccola psichiatria” ; o in qualche caso nelle Cliniche Universitarie di Malattie Nervose e Mentali, che a differenza dei reparti ospedalieri potevano organizzarsi riservando una corsia a pazienti psichici non troppo gravi.
Questa possibilità di ricovero , a volte con diagnosi alquanto mascherate per timore dello stigma o per evitare contestazioni amministrativo – burocratiche, era disponibile pure per i non abbienti, che trovavano anche possibilità di cure ambulatoriali gratuite negli ambulatori mutualistici specializzati e chiamati neurologici, ma dove di fatto – è esperienza personale – l’afflusso di pazienti realmente neurologici non superava il 20% del totale.
Raccogliere statistiche per valutare l’effettivo aumento di queste patologie psichiatriche oggi più evidenziabili è di conseguenza un compito improbo, trattandosi di raccogliere dati da molteplici agenzie spesso non in grado di fornirne di affidabili.
Un discorso a sé meritano i disturbi affettivi, causa un importante cambiamento nei paradigmi diagnostici di riferimento. Oggi le varietà di disturbo depressivo maggiore con aspetti psicotici, anche non congruenti con l’umore, vengono dal DSM V tenute fra i disturbi depressivi, e analogamente si procede con i disturbi bipolari; un tempo, con procedure diagnostiche meno rigorose, si tendeva a collocarle nell’area della schizofrenia.
La minor frequenza di questa in confronto ai disturbi affettivi potrebbe essere quindi effetto di un artificio classificatorio. Il discorso può essere diverso per i cambiamenti intervenuti nell’epidemiologia dopo il ’78; ma fino a un certo punto. Infatti questo periodo di osservazione è ancora piuttosto breve, e in parte è stato occupato dalla fase di costruzione dei nuovi Servizi. Questi, impegnati nell’offrire nuove soluzioni alle classiche patologie gravi, per qualche tempo non hanno potuto allargare il proprio campo di azione.
Cambiamenti intervenuti nei dispositivi di cura, nei criteri diagnostici, nell’atteggiamento della collettività concorrono dunque oggi a creare un contesto diverso, limitante la validità di raffronti che vorrebbero basarsi su riscontri obbiettivi.
Questo è un ulteriore memento dei limiti e difficoltà di un approccio obbiettivante, pur indispensabile specialmente nel campo dell’epidemiologia. Resta comunque importante l’aspetto operativo: il carico sui Servizi chiamati a occuparsi di queste “nuove” patologie.