Commento alla notizia apparsa su “La Repubblica” 8 Aprile 2015
A quanto pare, la scelta di non fare figli riguarda soprattutto le donne, o almeno questo è il taglio dell’articolo.
Da quanto scrivono i citati epidemiologi e studiosi, anzi in larga maggioranza studiose (ciò è significativo?) mi par di capire che la decisione di non fare figli è sostenuta da due ordini di motivazioni. Uno, credo nettamente minoritario ma emergente dalle interviste, pare lontano erede delle posizioni militanti di qualche decennio fa: dalle assunzioni ideologiche che si può esser donne senza esser madri, che la donna non deve sentirsi inchiodata a questo ruolo, e che l’aborto non solo va depenalizzato ma è eticamente lecito come riappropriazione del proprio corpo e del proprio destino.
Tali posizioni facevano parte, credo, della vasta costellazione femminista che ha reagito fra l’altro all’antico stereotipo della donna come fattrice. Questa vedeva nella riproduzione il proprio ruolo principale insieme a quello, strettamente correlato, della gestione della quotidianità domestica, ruolo profondamente radicato nella cultura popolare delle varie latitudini: “Che la piasa, che la tasa, che la staga in casa”; “a donna alla finestra non far festa”. La più che legittima reazione a questa impostazione ha comportato il rischio di buttar via il bambino (in questo caso letterale) insieme all’acqua sporca.
Fra l’altro, la differente considerazione riservata all’adulterio della donna rispetto a quello dell’uomo veniva giustificata proprio con questo ruolo riproduttivo: l’adulterio del marito è innocuo perché egli non fa che spargere un po’ del proprio seme fuori casa, mentre la moglie adultera potrebbe introdurre dei “bastardi” nel focolare domestico; ciò potrebbe aver contribuito all’imposizione alla donna di un ruolo subordinato e soggetto al controllo del maschio. Qualcuno – come la vecchia amica ormai perduta Iole Baldaro Verde – sosteneva che il supposto matriarcato dei primordi si reggeva sull’ignoranza del ruolo dell’incontro sessuale nella riproduzione, ruolo non facilissimo da cogliere dato il lungo intervallo di latenza fra i due eventi, e/o la molteplicità dei rapporti anche promiscui. Non so se ciò è vero: certo l’autorità patriarcale – ce n’è un residuo nella imposizione al figlio del cognome paterno – è stata anche garanzia della autenticità della paternità, imposta anche con quella forza muscolare in cui ancora oggi alcuni uomini cercano la sicurezza del rapporto.
Addirittura, era a lungo prevalsa la teoria – accuratamente formulata addirittura da Aristotele e seguita, dieci secoli dopo, ancora da Dante – per cui è il seme maschile il solo depositario delle caratteristiche umane, le anime vegetativa e sensitiva: esse danno forma alla materia bruta costituita dal sangue materno ritenuto sempre presente pur se evidenzi antesi solo nel mestruo; si equiparava così il rapporto fra maschio e femmina a quello fra il seme di una pianta e il terreno in cui si impianta e che lo alimenterà consentendone lo sviluppo; terreno certo necessario ma che, privo di ogni specificità com’è, non contribuisce alla formazione e attribuzione di un’identità personale e sociale. Il seme è principio attivo, disposto a fare, il sangue femminile è principio passivo, disposto a patire; la maternità è stata dunque a lungo sinonimo di passività e inferiorità. È forse anche – ma certo non soltanto – da queste remote eredità sedimentate in profondo che trae alimento l’ambivalenza con cui qualche donna vive la maternità, dall’evitamento della gravidanza fino ai non eccezionali casi di abbandono del neonato o addirittura di infanticidio.
Fra le rivendicazioni femminili rientra giustamente la parità, tuttora imperfettamente realizzata. La donna rivendica parità nel campo lavorativo, e può vedere con fastidio l’evento-gravidanza che può intralciare la sua attività lavorativa, con possibile rischio di perdere il posto o impedendo alla donna di essere “sul pezzo” in momenti decisivi e consentendo al concorrente o rivale di approfittarne.
Ciò introduce all’altra motivazione, sicuramente prevalente in donne non contrarie per principio alla maternità ma che fra un rinvio e l’altro finiscono per rinunciarvi. Il fare un figlio è ovviamente una scelta irreversibile e quindi preferibilmente rinviabile, mentre il non farlo è una decisione su cui si può tornare in qualunque momento; ma di fatto il lungo procrastinare la può rendere definitiva. È decisivo il problema della sicurezza.
Per Zygmunt Bauman l’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Egli pare attribuire a questa massima un valore universale, ma in altri aforismi invece la storicizza, come parte della sua concezione di “società liquida”: “Il terreno su cui poggiano le nostre prospettive di vita è notoriamente instabile, come sono instabili i nostri posti di lavoro e le società che li offrono, i nostri partner e le nostre reti di amicizie, la posizione di cui godiamo nella società in generale e l’autostima e la fiducia in noi stessi che ne conseguono. Il “progresso”, un tempo la manifestazione più estrema dell’ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è sposato all’alta estremità dell’asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso “progresso” sta a indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua”.
L’insicurezza ostacola, evidentemente, quella programmazione che riteniamo necessaria per allevare ed educare appropriatamente un figlio. Ciò è proprio della nostra attuale società, che ha a lungo perseguito la sicurezza ritenendo infine di averla raggiunta. Il posto fisso, la pensione, l’assistenza medica garantita, l’ordine pubblico tutelato, la pace sociale: si poteva pensare di avere sotto controllo ogni imprevisto. Addirittura, Fukuyama aveva incautamente preconizzato la “fine della storia” (posizione tardo-hegeliana?). Cambiava radicalmente, in questo contesto, lo stesso concetto di responsabilità genitoriale. Nei secoli scorsi persino l’elevata mortalità infantile era stata considerata una fatalità, un’inevitabile componente del destino umano, e così il lavoro minorile: quando invece abbiamo ritenuto di avere i mezzi per tutelare al meglio i nostri figli, è divenuto un obbligo etico offrir loro condizioni di vita “perfette”. Quando la certezza di ciò vien meno, insieme alle altre certezze, si può incrinare anche il desiderio di paternità e maternità.
Tuttavia, ciò non accade in popolazioni che vivono da sempre condizioni d’insicurezza ben più gravi della nostra, ma che forse proprio per ciò sono abituate a considerarle “naturali”: gli arabi israeliani, classe sacrificata, crescono a ritmi più elevati degli ebrei. C’è da aggiungere che in tali popolazioni, come fra noi fino a qualche decennio fa, la nascita di un figlio poteva anche essere programmata, ma era comunque il prodotto di un incontro sessuale attivato di norma dal desiderio: una sorta di “trucco” della evoluzione che permetteva alla specie di perpetuarsi. Oggi nel nostro mondo i due momenti sono, e forse è inevitabile, nettamente scissi, anche per lo sviluppo di tecniche che consentono da un lato di evitare paternità e maternità, o all’opposto di ricercarle con tutti i mezzi. Le perdita di una sicurezza che vorremmo garantita ci induce, paradossalmente ma non troppo, a perseguire un pieno controllo anche sul momento riproduttivo.
Non so perché in Italia il calo delle nascite è più vistoso: forse perché il nostro sviluppo economico e produttivo è più recente e di fondamenta meno solide, come d’altronde sembra dimostrare la progressiva smobilitazione o alienazione della nostra struttura industriale, che pare non reggere più di tanto alla globalizzazione. Questa, d’altra parte, è di per sé fonte d’insicurezza, estendendo gli ambiti in cui ci si muove e la molteplicità dei riferimenti.