Lo studio dei comportamenti di bullismo ha cambiato diverse prospettive nel corso del tempo, sebbene, infatti, esso sia sempre esistito, suscitando l’indignazione dei più e la ricerca di una spiegazione, da parte di esperti e addetti ai lavori, solo da poco tempo a questa parte gli è stato riconosciuto un termine, una definizione, per poterlo differenziare da altri atti violenti e, forse, per affrontarlo.
La parola bullismo deriva dall’inglese “bullying”: con questo termine si è voluto intendere l’insieme di tutte quelle azioni di sistematica prevaricazione e sopruso messe in atto da parte di un bambino/adolescente, definito “bullo”, nei confronti di un altro bambino/adolescente percepito come più debole, la vittima.
Si possono distinguere due tipi di bullismo: quello diretto, che comprende attacchi espliciti nei confronti della vittima, e può essere fisico o verbale; e indiretto, che danneggia la vittima nella relazione con le altre persone, attraverso atti come l’esclusione dal gruppo dei pari, l’isolamento, la diffusione di calunnie o pettegolezzi sul suo conto, utilizzando anche internet e i social network (cyberbullismo).
Il bullismo è un fenomeno oramai riconosciuto e che ha dato vita ad iniziative e studi, come ci ricorda l’articolo di Luigi Gia, che hanno come primo obiettivo la prevenzione e una presa in carico integrata dei casi, lavorando cioè non solo con l’aggressore e la vittima, ma con tutti i protagonisti delle vicende.
In quanto operatore di una comunità psichiatrica per adolescenti posso testimoniare quanto siano frequenti gli atti di prevaricazione tra i pari nell’età adolescenziale e come diventi cruciale il tentativo di prevenirli o risolverli quando sono ormai già avvenuti.
La comunità è sicuramente un contesto diverso dalla scuola, dove secondo gli studi, gli atti di bullismo avvengono sempre più frequentemente, tuttavia la comunità ospita bambini/adolescenti sofferenti con una diversa estrazione sociale “costretti” a convivere, condividere spazi, momenti, vissuti, il tutto mediato da un adulto, l’operatore, che cerca quotidianamente di portare avanti ogni singolo progetto riabilitativo ponendosi l’obiettivo però di costruire un gruppo tra gli utenti.
Capita, perciò, che quei momenti di condivisione a cui fa riferimento lo studio dell’articolo, avvengano frequentemente, magari durante un pranzo o durante un’attività.
Settimanalmente lo psicologo della struttura, insieme all’operatore in turno, riunisce il gruppo di ragazzi per un momento di confronto, il gruppo discussione, e spesso i temi affrontati riguardano liti tra utenti, dove i ruoli di vittima, aggressore e spettatori sono ben rappresentati. In quelle occasioni il conduttore del gruppo assume il ruolo di mediatore e attua strategie d’intervento rifacendosi ai processi di peer mentoring: il conduttore si posiziona in un punto strategico dell’ambiente, al fine di osservare le interazioni tra i ragazzi.
Se rileva un possibile conflitto si posiziona tra i due contendenti cercando di capire se sono intenzionati a trovare una soluzione negoziale tra di loro, senza l’intervento sanzionatorio dell’adulto; gli ricorda quali siano le regole della mediazione, cioè che possono entrambi raccontare la propria versione ma in modo rispettoso verso l’altro senza l’utilizzo di insulti, motivandoli alla ricerca di una soluzione. A questo punto chiede loro un resoconto dei fatti e delle emozioni provate. Chiarisce quanto stato detto e chiede loro di proporre le possibili soluzioni che gli vengono in mente. Inizia perciò un processo di problem solving, con l’obiettivo di trovare una soluzione non ideale, ma soddisfacente per entrambe le parti.
A tutto ciò non assumono un ruolo marginale gli altri partecipanti al gruppo, gli spettatori, che come nel capsle (approccio psicodinamico su cui è centrato l’articolo), vengono inclusi e coinvolti, lasciandoli intervenire, non tanto come testimoni dei fatti ma per verificare cosa ha suscitato in loro l’episodio aggressivo.
L’obiettivo che ci si pone organizzando questi momenti di riunione, non è solo la risoluzione del conflitto ma è, come già detto in precedenza, e come avviene nei gruppi capsle, di “migliorare la capacità di tutti i membri della comunità di interpretare il comportamento proprio e degli altri, in termini di stati mentali (convinzioni, desideri, sentimenti), sulla base della supposizione secondo la quale una maggiore consapevolezza dei sentimenti delle altre persone contrasta la tentazione di far il bullo con gli altri”, ponendosi dunque come obiettivo ultimo di favorire lo sviluppo dell’empatia.
Ripartendo da quanto detto all’inizio però, adesso che abbiamo dato un nome a questo fenomeno, che abbiamo ipotizzato e sperimentato i modi per neutralizzarlo come quello approfondito nell’articolo, ci si dovrebbe aspettare da parte del pubblico, (dello Stato, non dal pubblico degli avvenimenti) una maggiore presa in carico, una progettualità che, anche se comporterà un esborso di fondi, potrebbe portare a dei miglioramenti in tema di violenza che in alcuni contesti sociali verrebbero davvero considerati “miracoli”.