Commento di Valentino Ferro alla notizia del 2 giugno 2015
Il 2 giugno è stato pubblicato su La Repubblica un articolo dal titolo “Quel filo tra mente e intestino” di Francesco Bottaccioli, in cui si parla di alcune ricerche scientifiche che approfondiscono questo particolare legame.
Recentemente è stato pubblicato uno studio sulla rivista P-LOS One che ha indagato la relazione in 30.000 cittadini di Taiwan fra la diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile (IES) e il rischio di disturbo bipolare dell’umore. Nelle persone asiatiche che nel 2000 avevano avuto una diagnosi di intestino irritabile, nei dieci anni successivi, il rischio di sviluppare un disturbo bipolare è aumentato più del doppio. La ricerca sottolinea la connessione fra queste due malattie e propone che il disturbo intestinale possa predire in qualche modo quello dell’umore.
Il disturbo dell’intestino irritabile è una malattia problematica e in parte invalidante, con sintomi come: dolori addominali, gonfiore, flatulenze, diarrea e costipazione. L’articolo spiega come già altre ricerche abbiano sottolineato la relazione fra questo disturbo e stati d’ansia e di depressione. Per la prima volta però si evidenzia una relazione su un ampio campione con il disturbo bipolare dell’umore o maniaco-depressivo. Questo è caratterizzato da passaggi da stati di estrema ed irrazionale euforia, iperattivismo e gioia, chiamati episodi maniacali, e stati caratterizzati da depressione, anedonia e abulia, chiamati episodi depressivi. Il disturbo bipolare è una sindrome psichiatrica ricorrente, interessa l’1% della popolazione sopra i 18 anni ed ha una distribuzione uguale tra i sessi. Solitamente il primo episodio bipolare si manifesta in tarda adolescenza o nella prima età adulta, per presentarsi in modo ricorrente nel corso della vita. Il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) divide questo disturbo in disturbo bipolare di tipo 1, quando sono prevalenti gli episodi maniacali, e disturbo bipolare di tipo 2, quando la sintomatologia predominante è quella depressiva con almeno un episodio ipomaniacale. Gli episodi maniacali sono spesso contraddistinti da: autostima ipertrofica, diminuito bisogno di sonno, maggiore loquacità, fuga delle idee, grande distraibilità, agitazione psicomotoria, attività potenzialmente pericolose, promiscuità sessuale e abuso di sostanze (American Psychiatric Association, 2014). Questi stati sono egosintonici: la persona durante un episodio maniacale si sente solitamente molto bene, non ha l’idea di essere malato e la sua condizione esaspera non tanto lui ma le persone che lo circondano. I pazienti bipolari quando non sono in uno stato maniacale o depressivo hanno difficoltà ad avere un’immagine coerente di Sé e a creare una loro narrazione non frammentata; vivono spesso in ansia di poter essere vittime o succubi di un nuovo episodio della loro malattia, questa situazione crea una costante ansia e preoccupazione (Gabbard, 2015).
Ritornando all’articolo di Bottaccioli, è evidenziato come il collegamento fra disturbo bipolare e sindrome dell’intestino irritabile sia dato dall’infiammazione dell’intestino e che questa produca le citochine che arrivano fino al cervello influenzando lo sviluppo e l’insorgere del disturbo bipolare. Questi dati sono stati confermati da altri lavori, fra cui uno dell’italiano Paolo Brambilla dell’Università di Udine, che nel 2009 ha trovato un incremento di citochine infiammatorie nel sangue dei pazienti con disturbo bipolare (Brambilla, Bellani, Yeh, Soares & Tansella, 2009).
L’articolo della Repubblica fa riflettere sull’importanza della relazione fra mente e corpo e come questa possa essere considerata e pensata all’interno della relazione di aiuto e di quella terapeutica. Negli ultimi anni molti importanti clinici e ricercatori hanno scritto in merito a questa relazione, dando nuovamente spazio all’ascolto della comunicazione del corpo dei pazienti. Dico nuovamente non a caso, perché il tema delle malattie psicosomatiche e del manifestarsi della sofferenza mentale tramite sintomi fisici è stato dibattuto lungamente a partire dai primi lavori di Freud sull’isteria (1895) e dal pioneristico lavoro psicosomatico di Georg Groddeck (1923). Dopo questi autori numerosi altri si interessarono al rapporto mente e corpo nella prima metà del 900’. Dopo di che nel movimento psicoanalitico internazionale si assistette ad uno spostamento di interesse sui vissuti intrapsichici e fantasmatici della persona, l’attenzione alla relazione mente-corpo via via si attenuò. Questo probabilmente dipese dal grande scontro teorico tenutosi a Londra dagli anni 40’ che vide contrapposti gli psicoanalisti legati ad Anna Freud e quelli legati a Melanie Klein, con in mezzo i geniali autori del middle group (Balint, Fairbain, Winnicott, Bollas, Bowlby…). Quest’ultimi scrissero importanti lavori che posero le basi per una nuova rilettura del discorso sulla relazione fra individuo e il suo ambiente, le cure primarie e anche la relazione fra la mente e il corpo. Queste teorie negli ultimi anni sono state riprese e ampliate, anche alla luce di nuove scoperte scientifiche, e stiamo assistendo a ciò che Mauro Manica, citando Fedor Dostoevskij, chiama memorie del sottosuolo riferendosi a quelle teorie psicoanalitiche che in un determinato periodo sono state rifiutate e tacciate di non essere psicoanalisi e sono sprofondate in sotterranei e catacombe della teoria psicoanalitica, ma con il tempo premono per riemergere e influenzano le nuove generazioni (Manica, 2004, 2013).
Un importante autore che ha aiutato a chiarire il rapporto fra mente e corpo non è uno psicoanalista ma è il professor Antonio Damasio che nel suo libro L’errore di Cartesio (1995) argomenta in modo ampio ed esaustivo questo tema, sottolineando come mente e corpo siano un unico insieme inseparabile, il cui collante sono le emozioni e i sentimenti. Non c’è pensiero razionale senza il variopinto mondo delle emozioni e dei sentimenti, la divisione non è possibile ed è qui che Cartesio si è sbagliato. Le emozioni e i sentimenti sono radicati, incarnati, nel corpo e ci danno la possibilità di sentire gli stati di quest’ultimo e imparare nel corso dello sviluppo cosa siano sofferenza, felicità, brama, tragedia o gloria. Il nostro corpo è la cornice di riferimento dove avvengono i processi neurali e i pensieri dai più semplici ai più complessi; il cervello secondo Damasio è “l’avvinto uditorio del corpo”. Il corpo non si limita a fornire solo una funzione di sostegno e contenimento della mente, ma ne è parte integrante e fornisce la materia base per formare le rappresentazioni cerebrali. L’attività mentale può esistere nella sua interezza e piena complessità solo grazie a questo rapporto fra corpo e cervello.
In psicoanalisi, il corpo come sede e punto di partenza per lo sviluppo della psiche fu descritto da Esther Bick (1968) con il suo costrutto teorico della pelle psichica. Secondo l’autrice polacca trapiantata a Londra durante la Seconda Guerra Mondiale, nella relazione fra neonato e i suoi caregiver si struttura la pelle psichica che serve per superare lo stato di non integrazione iniziale e cominciare a creare rappresentazioni di sé, dell’altro e introiettare la funzione di contenimento. La pelle psichica è un esito positivo di una relazione con genitori sufficientemente buoni. Secondo Didier Anzieur la pelle psichica è una rappresentazione originaria che la mente da di se stessa come occupante di uno spazio delimitato, che per prima cosa permette di distinguere un dentro da un fuori. L’autore introduce il concetto di Io-pelle, che ha alcune funzioni fondamentali che sono: contenere le cure materne, nasce e si struttura dalla relazione con l’altro, è la barriera che delimita gli spazi ed è il luogo privilegiato per la comunicazione con gli altri. L’Io-pelle ha una funzione contenitiva per la psiche (Anzieu, 1987).
Nei primi mesi di vita del bambino l’insieme delle sue relazioni con i caregiver non sono ancora rappresentate a livello simbolico, attraverso il linguaggio, ma gli scambi affettivi che avvengono sono elaborati dal bambino da un punto di vista implicito e procedurale (Riva Crugnola, 2012). Il vissuto dell’infante che non è ancora pensabile è chiamato da Bollas il conosciuto non pensato, che indica quell’area di intersoggettività originaria costituita dal temperamento del bambino, l’innato, e dalle regole dell’essere in relazione con l’altro che sono determinate da come la madre è con lui (Bollas, 1989). La madre, o il caregiver di riferimento, relazionandosi con il bambino gli insegna la sua logica relazionale, che è così inclusa dal bambino stesso nel suo modo di essere soggetto e di relazionarsi; questa relazione non pensata si iscrive così nell’implicito, nella memoria procedurale e dunque nel corpo.
Penso che possa essere interessante per ampliare il tema del conosciuto non pensato il lavoro di alcuni importanti autori dell’infant research, che hanno indagato l’importanza della comunicazione implicita nel processo e cambiamento terapeutico. Questi autori hanno formato un gruppo di menti brillanti chiamato The Boston Change Process Study Group all’interno del quale si sono uniti ricercatori e clinici come: Brushweiler-Stern, Lyons-Ruth, Morgan, Nahum, Sander, Stern, Harrison e Tronick. Uno dei loro importanti contributi alla ricerca clinica è il costrutto teorico di conoscenza relazionale implicita, che indica quelle conoscenze cognitive e affettive che iniziano a strutturarsi durante i primi mesi di vita nella relazione con il caregiver e che però continuano ad operare per tutta la vita fuori dal focus dell’attenzione e dall’esperienza conscia, senza utilizzare il canale del simbolico (BCPSG, 2012). In questa conoscenza implicita si dispiegano nel rapporto con se stessi e con gli altri le relazioni oggettuali interiorizzate, ciò che Bowlby ha chiamato modelli operativi interni (Bowlby, 1969) e Stern dando più spazio alle dinamiche degli affetti ha chiamato schemi dell’essere con (Stern, 1994). La conoscenza relazionale implicita è anche il sapere come fare un qualche cosa, in modo intuitivo e veloce, ma è dunque anche un sapere implicito di come stare al mondo, come relazionarsi con gli altri e con se stesso, che precede il pensiero conscio e simbolico. Nelle storie di vita più sfortunate nelle quali si sviluppa una psicopatologia, può esserci una conoscenza relazionale implicita rigida, che preclude e limita nuove esperienze vitalizzanti e rigeneranti per la propria salute psichica. Le persone con queste storie sono quelle che hanno vissuto spesso con altri significativi esperienze pluri traumatizzanti nel corso della loro vita e la rigidità della loro conoscenza relazionale implicita è stata determinata dalle costanti infiltrazioni proiettive (Manica, 2015) che hanno subito.
Si spera che l’esperienza terapeutica, come poche altre, possa rappresentare un incontro nuovo, che con il tempo possa creare nuovi modi di pensare coscientemente, di essere con l’altro e con se stessi, fino a che questi cambiamenti si radichino profondamente anche nella conoscenza implicita, nell’inconscio e nel corpo.
Termino questo mio scritto con due speranze: la prima è di non aver annoiato troppo il lettore con le mie embrionali riflessioni sulla relazione mente-corpo e che queste possano essere utili spunti per un approfondimento personale di alcuni concetti da me velocemente citati; la seconda speranza più simpatica è un augurio che nessun gastroenterologo leggendo l’articolo che ho commentato inizi a prescrivere il litio a tutti i pazienti con sindrome dell’intestino irritabile!!!