Commento all’articolo apparso su La Repubblica il 27 aprile 2015
I NOSTRI FIGLI (TROPPO) DIGITALI “UNO SU TRE USA IL TABLET A 6 MESI”
L’articolo parla dei nostri ragazzini “digitali”, che però non sono diversi da noi, che non facciamo più a meno di Internet e dell’Email. Il mondo cambia, e non stupisce che i più propensi al cambiamento siano loro, meno raffrenati da una lunga sedimentazione di nozioni e di abitudini.
Noi siamo più propensi alla nostalgia, laudatores temporis acti (nostalgico come sono, lo dico in latino). Utili e persino affascinanti gli eBook, ma tuttavia non ci stacchiamo volentieri dal libro di carta, dalla morbidezza delle sue pagine, dall’atto di sfogliarlo con garbo e rispetto, dal vedere invecchiare con noi questo portatore di ricordi, dal poterlo firmare e farlo nostro.
Ogni cambiamento rinnova il dolore legato a quella che Freud ha chiamato caducità. Mi piace pensare che l’invenzione della scrittura, sostituendo in parte il ben più sanguigno incontro diretto, abbia un tempo suscitato analoghi rimpianti: e forse qualcuno – in età ellenistica? – avrà protestato contro la stesura su carta dell’Iliade, perché era tanto più bello sentirla declamata, come forse ai tempi dei tempi aveva fatto lo stesso Omero. Può anche darsi che il teatro, fra le tante funzioni, abbia anche questa: far rivivere, in un dialogo fra persone vive e vere, le parole già fissate su carta.
L’attuale iniziale distacco dalla carta non è certo il solo cambiamento legato al digitale: questo spinge anche la trasformazione del linguaggio. Piccolo esempio, la resurrezione dalla lettera k, dopo una lunga eclissi che durava dal tempo del “sao ke kelle terre…”; o l’uso della x al posto di “per”. Il crescente uso di termini anglosassoni costituisce un’altra grossa spinta, d’altronde legata alla prima dato il dominio di tale lingua in campo informatico. Forse è vano recriminare contro tutto ciò: da sempre, fra le sgrammaticature alcune fanno fortuna e portano alla graduale trasformazione della lingua. Se così non fosse, noi e gli inglesi saremmo ancora legati alle complicate coniugazioni e declinazioni rispettivamente del latino e dell’antico sassone. Non per questo è augurabile l’innovazione a tutti i costi: è delicato e importante l’equilibrio con la conservazione.
Certo, questi cambiamenti non sono irrilevanti quanto al nostro modo di essere, e tanto più se avesse ragione Lacan nel ritenere il linguaggio costitutivo dell’uomo e persino del suo inconscio; se non c’è pensiero senza linguaggio – e dico se – noi siamo il nostro linguaggio.
Un altro aspetto legato al vasto uso di questi mezzi è la sovrabbondanza dell’informazione offerta da essi, dal computer al tablet allo smartphone. Apparente ricchezza, tale da alimentare vissuti di onnipotenza in chi sente di avere il mondo intero racchiuso in quei circuiti. Ma è forte il rischio di confusione e di uso stupido di essi, poiché il sovrapporsi e l’intrecciarsi di messaggi rende più difficile il leggerli e fruirne consapevolmente e criticamente; è un po’ quel che succede in certe strade urbane, dove le mille insegne luminose finiscono con l’oscurare i segnali importanti. Svevo diceva che, se l’intelletto è brillante in chi inventa nuovi strumenti, spesso non è tale in chi li usa; sta a noi fare che le cose non stiano così.
Ancora: vanno aumentando gli incontri personali e collettivi mediati dal mezzo digitale, citati da Folco: Twitter, Facebook, WhatsApp, sms, che tendono a sostituirsi ai faccia a faccia: è forse un ulteriore passo per allontanarci dalla nostra animalità proseguendo il percorso iniziato, dice ancora Lacan, con l’invenzione del linguaggio. È in apparente contraddizione con ciò il crescente spazio accordato a una sessualità poco discreta e poco contenuta: ma forse questa è una sorta di formazione reattiva, un modo di sostenere una relazionalità che impallidisce.