Il gruppo di Tecnologia che Cura nasce dall’esigenza condivisa di introdurre la tecnologia, ormai onnipresente nelle nostre vite, anche in quella dei pazienti, rendendola elemento di cu(ltu)ra. Inoltre l’utilizzo di essa, in termini di dispositivi elettronici quale un cellulare, per esempio, rientra, anche nella testistica più attuale: un’autonomia fondamentale ai fini di una dimissione. Il gruppo ha voluto riprendere le modalità di quello già presente in struttura di Social Skill per non essere lezione frontale, ma uno scambio.
Il Social Skill Training è un trattamento di matrice comportamentale, utile per gli utenti psichiatrici in regime residenziale. Questo approccio prevede il coinvolgimento attivo di tutti i membri del gruppo che possono a loro volta, dopo aver appreso determinate tecniche, rinforzare e incoraggiare gli altri che iniziano per le prime volte a partecipare agli incontri.
In questi anni il gruppo si è consolidato, diventando un esigenza espressa quella di riunirsi su diverse tematiche proposte anche dagli utenti stessi, concentrandosi ultimamente proprio sulla tecnologia. Un incontro al mese (di cui si è anche chiesto di aumentarne la frequenza) dove alla pari si discuteva degli argomenti scelti con un taglio pratico e che prevedesse modalità di confronto adeguate. Molti dei punti trattati sono moduli propri del manuale stesso come l’empatia, la gestione del conflitto o l’abilità pratica nella vita quotidiana dell’ utilizzo del cellulare.
In questo anno di incontri mensili abbiamo tenuto un “diario di bordo” con le diverse riflessioni emerse e proveremo a sintetizzarle, nonché condividere i diversi (s)punti, eccone alcuni:
Tecnologia che cura: Io, Operatore Robot – Cominciamo con una lavagna bianca divisa a metà ROBOT vs UOMO. Chiedo in cosa i robot ci possono sostituire e aiutare, ma anche ciò in cui farebbero ancora difficoltà. Escono fuori molti esempi tutti a favore dei robot. Poi la domanda: “L’operatore potrebbe essere sostituito da un robot?”, “sì, le terapie le farebbe più velocemente” e altrettanti esempi. Allora chiamo un ospite che non ha risposto alla domanda e gli chiedo nella simulata di essere se stesso e io sarò me stessa, ma in versione robot:
Chiedo di pormi le solite domande giornaliere: “La terapia? Eccola qua, già pronta”, “Le sigarette? Non è programmata l’erogazione per questa fascia oraria. Le sigarette? Non è programmata l’erogazione per questa fascia oraria.” “Posso uscire? Le porte si apriranno alle 14.30 come da orari prefissati”. (Fine)
Il feedback del gruppo cambia radicalmente e quando chiedo cosa differenzia l’operatore dal robot esce fuori la parola empatia, già affrontata in molte forme durante i gruppi di social skill, ma mai ci siamo soffermati sul rapporto operatori-utenti e dell’empatia all’interno di esso come una sigaretta anticipata in una giornata impegnativa di visite mediche o in cui si sta poco bene, la capacità di un ascolto attivo e tante altre piccole attenzioni che tirano fuori loro: un sorriso, una battuta, un silenzio, …
Riassumo il seguente brano agli ospiti (che lascio per intero in caso di interesse per gli operatori):
“Empatia nel tempo della tecnologia: come la narrazione è la chiave dell’empatia” nel Journal of Evolution and Technology (2008) – “Infine, gli eserciti usano la tecnologia dei videogiochi per sopprimere l’empatia e creare un nuovo tipo di soldato. Nel suo esaustivo studio “War Play” (Eamon Dolan / Houghton Mifflin Harcourt, 2013), Corey Mead della City University di New York, dimostra come l’esercito americano abbia creato un complesso di intrattenimento militare per reclutare soldati. Tuttavia, i giocatori vengono reclutati attraverso i siti di videogiochi per unirsi alle forze aeree di tutto il mondo.E come notato nel giornale, lo psicologo della Military Medicine by Air Force Wayne Chappelle, et al., Con questa nuova descrizione del lavoro militare arriva un nuovo problema psicologico che non è stato previsto: gli operatori dei droni soffrono delle proprie forme di disturbo da stress post-traumatico ( PTSD). Lo stress di andare tra l’uccisione di bersagli remoti e senza volto e l’incorrere in danni collaterali, e poi tornare a casa quel pomeriggio in attività banali come allenare la partita di calcio di un bambino è forse l’ondata di empatia più estenuante di tutti.”
Ci confrontiamo su un articolo in cui gli USA scelgono civili appassionati di videogiochi per pilotare droni su bersagli che hanno poi scoperto essere vivi, se un soldato addestrato spesso presenta stati di Disturbo Post Traumatico da Stress, tutti i soggetti testati hanno avuto difficoltà a staccarsi dal pc e andare con serenità a prendere il figlio al parco. L’idea era inserire l’empatia umana in un robot per ridurre problematiche nei soldati ed aiutarli, ma creando ulteriori traumi ai civili coinvolti. Si è poi parlato di altri esempi come la prima guerra mondiale e la vita in trincea, anzi la morte. Racconto l’episodio da Niente di nuovo dal fronte occidentale che mi colpì molto quando lo lessi dove sul terreno tra le due trincee i soldati, uomini differenti per solo l’uniforme indossata, hanno condiviso le scorte per festeggiare il Natale, si sono abbracciati e hanno cantato in lingue differenti abbracciati, molti ospiti sono rimasti stupiti. Concludiamo che per il momento i robot con empatia sono ancora un traguardo difficile.
La simulata finale tra un ospite “normale” e uno che simulava un “robot empatico” per provare a confutare quanto detto finora – I due ospiti riassumo e risolvono ogni dubbio nel cercare di comunicare abbracciandosi seppur goffamente, mostrandosi per loro stessi e uscendo dai ruoli.
L’empatia emerge nuovamente nell’incontro sui rischi nell’uso della tecnologia con la visione di un episodio di black mirror (42 minuti) serie tv che trovate approfondita nell’articolo https://vasodipandora.online/un-attimo-dentro-un-cinematografo-emozioni-in-2d/ dove la violenza diventa spettacolo, ma soprattutto la pena per un reato.
Riassumo la puntata per chi non la conoscesse, “si tratta della 2×02 intitolata Orso Bianco, inizia con la visione di una donna di nome Victoria Skillane che si sveglia seduta su una sedia e scopre di non riuscire a ricordare alcunché della propria vita. Uscita dalle quattro mura scopre però che tutte le altre persone sembrano ignorare la sua richiesta di aiuto, riprendendola inoltre con i telefonini. La donna viene aggredita da un uomo mascherato ma riceve l’aiuto di Jem, una ragazza in fuga come lei. La giovane rivela a Victoria l’atroce verità: la maggior parte della popolazione è stata vittima di un virus, diffuso sui dispositivi elettronici, ed è diventata totalmente drogata dalla compulsiva mania di riprendere tutto e tutti. Con l’aiuto di Victoria, Jem ha intenzione di distruggere il trasmettitore Orso Bianco, dal quale provengono gli strani segnali. Ma la realtà è ben diversa, si scopre che Victoria è in realtà una donna condannata per aver rapito una bambina di 6 anni, e per averla torturata ed uccisa. Per la sentenza, la memoria di Victoria verrà cancellata ogni sera, e la mattina si sveglierà senza ricordare nulla, credendo di trovarsi in una sorta di momento di ipnosi collettiva in cui i pochi sopravvissuti vengono inseguiti ed uccisi da dei carnefici mascherati. Durante i titoli di coda, si vede lo staff di un vero e proprio parco dei divertimenti mentre si prepara allo spettacolo del giorno successivo e in cui il supplizio di Victoria viene trasformato in un vero e proprio show. Le persone con i telefonini sono, in realtà, i visitatori del parco, che ogni giorno possono assistere alla tortura della donna e registrare la scena. La spettacolarizzazione della cronaca nera e la mitizzazione del killer è evidente nei talk show di tutto il mondo e questo fenomeno televisivo e del web appare addirittura senza controllo.”
Alcuni ospiti sono favorevoli, altri si indignano ritenendo atroce anche solo pensare di torturare una persona. Viene spontaneo riflettere sulla propria condizione, la maggior parte dei presenti sono in comunità con misure di libertà vigilata e pericolosità sociale. Emerge lo spunto della pena di morte, sempre meno attuale, ma che se ancora esiste ed è stata scelta come punizione una maggioranza la riteneva equa. Un confronto denso e contenuto in una ventina di minuti, essendo già l’episodio della durata di poco meno di un’ora piuttosto intenso. Lascio che l’incontro rimanga con tanti interrogativi a cui solo il singolo può rispondere.
In ogni gruppo trova posto ogni persona della comunità e viene ringraziata per aver condiviso parte della sua vita, affidandola agli altri per farsi aiutare e trovando insieme, spesso utilizzando il problem solving, delle possibili soluzioni, nonché un supporto emotivo. Uno spazio sicuro in cui poter esprimere se stessi nel rispetto dell’altro, mettersi a confronto, ma soprattutto in ascolto, dove l’operatore conduce ed è condotto.
Spesso i punti di vista sono differenti, ma in conclusione, durante l’ultimo gruppo, alla domanda “Ma la tecnologia ci può curare?” I nostri ospiti hanno risposto: “Non noi, …” ed è da questa riflessione che riprendiamo il nostro percorso come Gruppo di Tecnologia che Cura.
Nella foto accanto al titolo, gli articoli letti durante l’anno, alcuni spunti e giochi (come far indovinare la parola wifi in modalità di gioco Taboo agli ospiti più giovani dal più anziano della comunità che dopo svariati tentativi siamo riusciti a rendergli più concreto che astratto il termine in questione, un bel traguardo), oppure la lista degli argomenti da trattare scelti insieme tra équipe e ospiti.