Vaso di Pandora

Il patto di silenzio

“avevi tanta paura

della mia voce

che ho deciso di averne

paura anch’io”

(R. Kaur, Milk and honey, 2017, p. 17)

La bocca serrata, il capo chino. Tante volte sono rimasta zitta.

Oggi come ieri mi chiedo se sia stato legittimo, quel silenzio. Frutto malato di un tacito accordo che permea strade, case, scuole, tribunali. Mi guardo allo specchio e mi domando il motivo: se sia stato per codardia, per l’amore di chi mi siede di fianco, per salvaguardia di me stessa.

Oggi come ieri riconosco la mia responsabilità.

L’omicidio di Giulia Cecchettin si è riversato come una marea nella coscienza collettiva, sfidando il pensiero di quanti lo ritengono frutto di una crudeltà singolare, circoscrivibile, non prevedibile, esito ultimo di una mente malsana. Schiere di militanti si ergono a giudici e giuria condannando un uomo colpevole ed assolvendo una società responsabile. Perché laddove Filippo Turetta ha colpevolmente spezzato una vita che non gli apparteneva, è altresì vero che non si tratta di un fenomeno isolato, ma sistemico. Un quadro tragicamente prevedibile per chi saprà vedere al di là di ciò che appare. Le radici di questo fenomeno sono ben più profonde.

In Italia, prima del 1946, ad una donna non era riconosciuto il diritto ad assumere un ruolo attivo e partecipe nella società politica in divenire; fino al 1978, si è vista negare la possibilità di decidere liberamente per il proprio corpo (legge 194).

A livello familiare, fino alla fine degli anni ’60 la legge italiana distingueva il reato di adulterio, il tradimento di una moglie verso il marito e, viceversa, di concubinato: solo nel primo caso tale reato poteva essere perseguibile. A seguito della conquista del diritto al divorzio, nel 1970, la legge italiana ha abrogato le disposizioni sul delitto d’onore e sul matrimonio riparatore (1981). Nel 15 febbraio 1996, appena 27 anni fa, lo stupro smise di essere considerato un crimine contro la pubblica moralità: divenne un crimine contro la persona.

Si sostiene che, in epoca attuale, alle donne vengano riconosciuti gli stessi diritti ammessi all’uomo e che dunque non possa esserci alcuna discriminazione sistemica: ciò è vero. Tuttavia raramente l’impianto culturale, frutto ignaro di innumerevoli condizionamenti intergenerazionali, rispetta le disposizioni di legge.

“Se la legge può cambiare, non può cambiare il mio cervello”: così un giovane uomo chiarisce la sua posizione di fronte al neonato ordinamento che equipara il tradimento maschile e quello femminile, sostenendo che quest’ultimo, ben più grave di quella maschile, possa essere punito privatamente anche con l’uccisione della stessa, in accordo al delitto d’onore (“La gelosia siciliana”, documentario del 1978).

Un pensiero antico, senza dubbio, eppure tacitamente condiviso. È qui che la cultura patriarcale si rivela. Non è nella malevola presenza di leggi o nella loro assenza che essa assume concretezza quanto in una spersonalizzazione velata, difficilmente rilevabile, per questo egualmente insidiosa.

Un sistema di valori sottili, votati ad una coerente de-umanizzazione dell’individualità femminile, capaci di realizzarsi quotidianamente in una moltitudine di preconcetti e credenze che condizionano l’agire individuale, plasmando la realtà.

Così, uno stupro è tale solo fin quando la vittima urla, si dimena; solo fin quando i morsi, i tagli sul suo corpo testimoniano ciò che la mente non vuole cogliere. È tale fintanto che la vittima non è annebbiata dall’alcol nel sangue, né ha peccato nell’indossare un abito; eppure il lupo, se così lo si vuol erroneamente chiamare, non è qui: né nel bicchiere, né nel vestito. La violenza individuale e le sacche di disconoscenza sociale originano da una serie di congetture velatamente colpevolizzanti, sorgono da reazioni culturali e sociali che sono sede privilegiata del teatro di svalutazione sistemica dell’autodeterminazione femminile.

Appare chiaro, dunque, come in un’aula di tribunale sia stato possibile formulare domande inquisitorie ad una vittima di violenza: “perché non si è divincolata?”, le è stato chiesto, “perché non ha urlato?”. O ancora, come sia stato possibile assolvere un uomo responsabile di aver allungato le mani sul fondoschiena di una giovane studentessa: un comportamento, così definito, goliardico e durato meno di dieci secondi, non contestabile come molestia. Ma allora, mi domando, cos’è una molestia?

Similmente, in un tribunale svizzero, la condanna di un giovane uomo responsabile dello stupro di una sua coetanea è stata ridotta a 4 anni e 3 mesi; le motivazioni, secondo i giudici, risiedono negli atteggiamenti provocanti di cui la donna si sarebbe macchiata e nella brevità della violenza, perpetuata per soli undici minuti. Ma allora, quando si può parlare di stupro? È forse necessario un tempo minimo utile per poterlo dimostrare?

L’omicidio di una donna non si risolve in sé stesso: esso è l’esito più drammatico e funesto di una piramide di atteggiamenti, spesso tacitamente giustificati da una disumana colpevolizzazione della vittima. Battute sessiste, discriminazioni sul lavoro, molestie e abusi verbali, violenze fisiche, sessuali, emotive e finanziarie: questi sono solo alcuni degli atteggiamenti che compongono questo teatro di potere. Diversi, eppure aventi tutti una radice comune: tesi alla manifestazione, più o meno esplicita, del predominio maschile ed al ladrocinio dell’autonomia decisionale femminile. Laddove alla donna, perpetuo emblema di stereotipi di accudimento e remissione, talvolta viene disconosciuta la possibilità di scelta, il privilegio del rifiuto. Ed allora il corpo che si nega diviene improvvisamente un insieme di pelle, ossa, tendini: nulla più rispetto ad un cumulo di carne. L’autodeterminazione femminile diviene il terreno di battaglia di una lotta per il potere; uno scontro che talvolta, tragicamente, non fa prigionieri.

Tanti sono i comportamenti che, nei miei pochi anni di vita, ho avuto modo di osservare. Alcuni più di altri mi hanno toccato; sono occhi, sono mani che resteranno cucite sulla mia pelle senza remissione. Oggi so che quei gesti qualificano molto chi li ha commessi, per nulla me stessa. Tuttavia, per quanto consapevole che la colpa materiale non sia mia, è stata invece mia responsabilità il patto di silenzio a cui tante volte ho tenuto fede: ogni parola negata è fuoco che alimenta quel circolo di tacita accettazione e indifferenza.

Che il mio silenzio possa non cullare più le orecchie di quanti non vogliono sentire.

Oggi scelgo di non aver più paura della mia voce, il mutismo può bruciare.

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