Vaso di Pandora

Vivere la crisi economica

Vivere la crisi economica

di Roberta Antonello, Psichiatra, Supervisore Comunità Gruppo Redancia
e Paola Bartolini, Psichiatra CT Villa del Principe (Ge)

La comparsa della crisi “economica”, di prevalente natura “finanziaria” nel 2008, sembra influire all’inizio in modo più rilevante sul patrimonio di un ceto sociale benestante, sul risparmio di una classe media, lasciando sbigottite persone dalle molte sicurezze.

Risparmia apparentemente il vissuto della classe operaia e il ceto medio piccolo. Ma colpisce delle certezze.
Lo spettacolo delle Banche Americane che chiudono, la perdita dell’infallibilità del mondo della finanza nei suoi guru, la sensazione che nulla sia più certo incominciano a pervadere un pubblico impreparato, convinto, come è stato sempre, che l’esperto sappia indicare risposte giuste, che i paesi forti abbiano ragione, sappiano insegnare, che le banche siano un posto sicuro. Le persone si ritrovano tra contraddizioni e vivono la perdita di una fiducia, esperienza ai più nuova.  Il famoso anno in cui la crisi avrebbe dovuto concludersi passa e le cose peggiorano: le notizie, le informazioni sono per molti oscure perché contrastanti. Avvicinarsi ad un mondo finanziario è difficile, lo sconvolgimento di economie ritenute stabili e il comparire di nuove economie forti che invadono il mercato man mano allarga il clima di insicurezza, incertezza e disagio ad un sempre maggior numero di persone. E diventano evidenti le conseguenze economiche, la sofferenza per il calo delle entrate, l’insicurezza lavorativa, l’aumento della disoccupazione, la caduta del miraggio di un posto sicuro, l’affanno del governo, la comunicazione mediatica sempre più occupata a fornire spiegazioni e dibattiti contraddittori. La gente è immersa in una nuova terminologia economica che pervade le comunicazioni. Infine sulla classe meno forte, sui piccoli imprenditori, sui pensionati, sui giovani, sul ceto medio arriva l’insicurezza economica, la reale nuova povertà, e la necessità di fare i conti con una realtà sempre più difficile. Soffrono la crisi economica.
Ma quali sono i risvolti psicologici, quali le reazioni? Non è la prima crisi per i “vecchi” che hanno vissuto il dopoguerra, è fenomeno nuovo per molti altri più giovani, ma le loro storie personali si intrecciano con le vicende reali nel provocare in ognuno risposte assolutamente diverse.
La comparsa di movimenti volti a ‘giustificare’ il suicidio come giusta, rabbiosa, tragica protesta (contro…contro…contro chi? Lo Stato, le Banche Americane, il Governo, le Banche Italiane) ci ha lasciato stupefatti per il suo dar credito che questo atto estremo fosse legittimo. Le vedove si sono riunite in manifestazione e possono essersi in qualche modo aiutate a superare il lutto, ma incredibile è stato il messaggio dei media (alcuni) sul restituire una forma di ineluttabilità e accettazione di questi tragici eventi al pubblico.
Non vogliamo criticare, anche se, nella realtà, comunicazioni del genere sono malefiche e talvolta solo disoneste manipolazioni che invece di aiutare a capire, come la stampa dovrebbe fare, sono volte a seguire un profitto con cinismo. E’ facile manipolare, difficile invece stimolare a pensare, a cercare di capire e conservare un’etica nel proprio lavoro.
Sappiamo che i paesi più colpiti sono Grecia, Spagna, Italia, ebbene il numero dei suicidi è sì globalmente aumentato nell’ultimo triennio, ma i paesi più colpiti dalla crisi economica rimangono tra gli ultimi in questa penosa classifica. Ciò ci pare un’ulteriore testimonianza di quanto non si possa ridurre un evento complesso, legato alla persona e alla sua storia, ad un nesso comune ed unico, quale l’attuale depressione economica. Senza togliere nulla al valore di “stressor” della stessa.
Ripeto noi vogliamo con questo primo articolo di “Oltre” cercare di capire. Lo abbiamo fatto attraverso alcune interviste a tre persone di differente estrazione sociale, diverse per lavoro, cultura, storia personale e formazione, ma accomunate dall’essere state coinvolte e colpite dalla crisi economica.

Prima intervista

F. è una persona di 48 anni, laureato in Italia, specializzato all’estero, ha responsabilità di Manager ad alto livello. E’ figlio unico. Sposato, ha due figli.
Ci accoglie con estrema cortesia ma alle prime domande, rivolte a farlo parlare della sua reazione ai cambiamenti che la crisi ha comportato, tende a ricondurre la conversazione ad un generale discorso economico segnato dal pessimismo.  Difficilmente l’Italia, l’Europa ce la farà, le economie emergenti sono altre e lo attraggono.
Descrive il suo rapporto coi numeri, lo schermo del computer riporta i continui cali del valore delle azioni e questo è incontrollabile, senza possibilità d’inversione. Non era mai successo: tutto era sempre stato in salita ora è in discesa. Non era abituato a questa possibilità. Ci sembra particolarmente doloroso il non controllo, il fatto di non poter incidere sugli eventi (vedremo in una seguente intervista come il lavoro dell’impiegato, geometra in una grande società resta per lui un valore incontestabile, suo prodotto aldilà dei giudizi degli altri).
Guardandosi intorno sente di non poter condividere il suo stato d’animo, perché il giudizio nell’ambiente in cui vive è fortemente collegato al successo economico che traspare dal tipo di vita che uno fa, dagli oggetti, dalle abitudini, dalle scuole che i figli frequentano. Un calo rappresenta un calo del valore che gli attribuiscono gli altri e conseguentemente al vissuto di solitudine corrisponde un sentimento di paura, di svalutazione di sé al cospetto degli altri e forse anche della sua famiglia. Tenere alta l’immagine di sé, non cedere, sembra un imperativo a cui non potersi sottrarre. Oltre alla solitudine, alla paura, compare il desiderio di fuga verso paesi promettenti, verso un nuovo riscatto economico, ma lo trattiene l’attaccamento alla madre. Con toni pacati, ma tristi, parla dei suoi amici, delle loro disavventure, dell’imbarazzo di un’amica che, perso un importante lavoro, si sente guardata con ‘sospetto’ dalla collaboratrice domestica. Lo circonda un mondo freddo, incapace di solidarietà.
Eppure razionalmente si rende conto che la situazione non giustifica una depressione. Momenti ben più difficili l’umanità ha vissuto: ricorda i campi di concentramento, esempi di sopravvivenza in situazioni estreme. Poi parla delle sue piccole gratificazioni, imparare una lingua nuova, essere oggetto di complimenti per la sua vivacità intellettuale nell’apprendere. Ma il suo “portafoglio” è povero, immerso in un mondo dove il valore della persona è economico e quindi i titoli del portafoglio sono interconnessi al proprio status.
Discute della rigidità che abbiamo in Italia, a differenza di altri paesi, nel cambio di ruolo: difficile essere oggi in alto e domani lavorare come cuoco, non siamo flessibili, non siamo abituati ad essere flessibili, la nostra autostima è sorretta anche molto dal ruolo che copriamo, la vergogna è una minaccia, la solitudine la conseguenza.
Durante l’intervista, sempre sorridente e cortese, non si lascia trasportare dall’emotività e ci trasmette la sua tristezza in modo non diretto. Sente di dover rimanere in piedi, “attaccato come un’ostrica”, sperando che le cose vadano bene.
La società basata sul successo economico lo lega ad uno scoglio “come un’ostrica” e immobilizzato non può che aspettare tempi migliori.

Seconda intervista

G. è una persona di 30 anni, diplomato geometra lavora per la Fincantieri da 10 anni, è sposato, ha un figlio, l’ambiente di provenienza famigliare è modesto (difficoltà economiche).
Si presenta sorridente, tranquillo, contento dell’intervista e durante tutto il tempo manterrà questo atteggiamento.
Alla prima domanda che gli poniamo: “Come ha reagito alla crisi, e in particolare a quella dell’azienda presso cui era impiegato?” risponde vivacemente. Con rabbia. Il fatto che il suo lavoro non sia stato rispettato per il suo valore, che i 10 anni di attività venissero vanificati come inutili l’aveva fatto infuriare, egli, di solito controllato, aveva affrontato il Direttore del Personale con rabbia e rivendicato che non si viveva come “esubero”.
Riconosceva la logica aziendale, i problemi reali, ma non poteva tollerare l’offesa che delle persone venissero considerate “esuberi” inutili, che fosse attaccato il valore del suo lavoro. La sua autostima, il riconoscimento delle proprie capacità non poteva essere colpito. A questa discussione era seguito un secondo incontro ed era stato trasferito in una sede rivierasca della medesima azienda. Fatica, viaggio, ore fuori casa non lo colpiscono. Certo sono cambiate abitudini, si è stretta la cinghia, ma lui per altro è contro il consumismo e si sente ottimista. Così non è per altri colleghi, sono stati messi in cassa integrazione: chi batteva la fiacca, in alcuni prevaleva la paura. Negli anziani l’atteggiamento era diverso, loro volevano fare le navi, i giovani volevano il lavoro. I vecchi ricordavano le lotte passate ma G. osserva che erano tempi diversi e che ora bisogna essere più pronti a nuovi lavori, a cambiamenti, che lui e altri ci pensano, si ingegnano. Parla di aver superato un corso per diventare istruttore di immersioni in apnea. Pare molto soddisfatto perché ci vuole un bel controllo ad essere soli sott’acqua, parla di un possibile progetto con soggetti che hanno bisogno di terapie acquatiche.
Esiste solidarietà e condivisione del problema con i compagni di lavoro: si parla, si fanno ipotesi, si sa che anche l’altro stabilimento, quello in cui lavora ora, può andar male, ma l’atteggiamento di G. è ottimista, quasi maniacale, cioè quasi a voler dire “sono in grado di farcela, non mi butterà giù questo, me la caverò”. Ricorda che viene da una famiglia che ha fatto sacrifici e che condivide le sue difficoltà.
In lui notiamo l’assenza di un sentimento di responsabilità personale su quello che succede, la coscienza di saper lavorare e potersi concedere reazioni rabbiose avendo solidarietà, così come vivere una situazione di ottimismo in relazione alla sua sicurezza, di avere capacità e risorse personali, affetti, interessi. Parla del figlio e della moglie, emerge il suo ruolo di responsabile, di appoggio al nucleo famigliare, sostegno. Orgoglio e autostima lo tengono in una posizione “antidepressiva”, la crisi gli “ha sviluppato risorse” dice.

Terza intervista

La terza intervista è a M, 64 anni, imprenditrice, ha organizzato un’attività commerciale formandosi per questo  da giovane, attività che ora conduce la figlia, con il suo aiuto. Il negozio è una sua creatura, una cosa voluta da lei. Durante il colloquio mostra un apparente distacco dal problema, sembra osservare dall’esterno le vicende dei colleghi (chiusura di attività commerciali) e si difende da un vissuto depressivo con un atteggiamento di consapevole rassegnazione (“già da anni per i commercianti le cose erano cambiate”).
La discesa economica sembra essere stata prevista e coglierla preparata, rassegnata. Traspare la rabbia contenuta e il desiderio di nascondere debolezze che si ripercuoterebbero sui suoi famigliari (alla madre dice che vende, alla figlia non comunica preoccupazioni).
Il suo atteggiamento protettivo si esplicita quando, cercando di dare una spiegazione ai suicidi di imprenditori, spiega che sicuramente avevano del personale da mantenere e che, a suo parere, sono stati schiacciati dalla vergogna/impossibilità di continuare a farlo.
Ogni tentativo di allargare il discorso con altre riflessioni si scontra con un suo atteggiamento difensivo, un atteggiamento anche di attacco se si sente tacciata di debolezza o preoccupazione.
L’essere la persona che porta la responsabilità della famiglia, il marito non sta bene, la irrigidisce in questa immagine. Osserva che non ha visto donne che si suicidassero, ma solo uomini, ma non ne dà spiegazioni. Non cerca solidarietà né condivisione.
“Ognuno deve lavorare”, “il lavoro è dovere”, una rigida morale imparata nella sua famiglia la guida anche ora.
Ma a tratti compaiono emozioni: mostra un sentimento nostalgico verso i tempi del successo economico quando la sua attività era in crescita. La voglia di riposarsi, di divertirsi.
Mostra flessibilità, la figlia formata e aggiornata su questo lavoro, si apre a nuove possibilità.
A noi intervistatori pare più sola e depressa di quanto esprime e fortemente legata al suo ruolo protettivo femminile. La tristezza è evidente, tristezza che non trova colpevoli se non lontani (le Banche Americane) e accetta l’irreparabile.
Non entra in contatto con i suoi sentimenti almeno con noi intervistatori, ma sembra conservare un suo ruolo che sostiene la propria autostima a differenza dei soldi.

Osservazioni e conclusioni

L’evento traumatico della crisi economica vede quindi risposte differenti in persone diverse.
Una prima riflessione porta a pensare che la cultura prevalente della società attuale, in questo caso una cultura centrata soprattutto sul successo economico, sull’immagine, sul consenso, incide su persone con differenti storie personali, di età, ambienti ed esperienze variabili, e strutture di personalità diverse. Ciò spiega in parte reazioni diverse.
Palese è il ricorso alla colpevolizzazione dell’altro, all’attacco, alla rivendicazione come mezzo di autodifesa da sentimenti sgradevoli, più facile in persone che subiscono da dipendenti il ridimensionamento della società che dà loro lavoro, o anche la perdita del lavoro stesso. Questo non toglie nulla al reale valore delle azioni volte al salvataggio del proprio posto di lavoro, ma forse spiega come le modalità siano differenti nei giovani e in chi ha vissuto già momenti di crisi, in un’altra epoca, con un sistema economico meno “globale” e possibilità di risposte più slegate da una situazione generale comune. Il giovane sembra cogliere la necessità del cambiamento, del dover riflettere su altre possibilità, ha l’idea di poter fare altre cose. Come? Non lo sa e così alterna attacchi a reazioni più ottimiste fondate su un’autostima non attaccata dagli eventi. E, forse, ha anche un appoggio famigliare che il meno giovane non ha.
Non è solo, comunica, ha solidarietà, ma di nuovo incide la sua storia personale e la sua struttura di personalità, la famiglia che lo ha educato con pochi mezzi e il ricorso all’ideologia (no al consumismo) come sublimazione positiva della necessaria rinuncia a beni di consumo. Sembra non intaccato da un’analisi del problema più vasto. Altri giovani di cui parla sembrano condividere sue posizioni, la rabbia e l’attacco (mi riferisco a eventi recenti: l’operaio cardiopatico che con il proprio rischio vitale ha spinto ad abbozzi di soluzioni in Sardegna mobilitando la pubblica opinione) sembra più di adulti anziani. (Sacrifico il mio corpo, lo metto a repentaglio perché è un mio diritto e vendetta. Ve ne vergognerete, sarete attaccati dalla colpa di avermi ammazzato). La rabbia diventa vendetta suicida. I colpevoli sono lì, hanno le risorse e non le danno. Scena che ci riporta a una relazione tra “padre padrone” e “operaio figlio” gettato via e segna il grande legame tra fabbrica e lavoratori, a quello specifico prodotto che fanno. L’analisi economica tanto divulgata dai mass-media non li tocca, non è sentita, non arriva alle loro orecchie.
Ma l’analisi economica, in questo momento epocale (Prima grossa crisi economica), tocca il manager in modo del tutto diverso. E’ una sua difesa che lo distrugge. Vede l’imprevedibile, è conscio che tutto è collegato, che l’orizzonte è scuro, e non ha nemici da attaccare (l’America è lontana e forse la sua educazione è stata anche americana). E’ solo. Ma il suo vissuto di paura, incertezza, desiderio di fuga, non si dipana in un vissuto depressivo che porti ad un cambiamento di valutazione della situazione, in una riflessione comunicabile. Qui sembra che anche la depressione sia una colpa. L’esperienza di Giobbe, la pazienza di Giobbe di fronte agli infiniti colpi infertigli dalla vita di cui non si dava spiegazione non si piega ai sensi di colpa che gli amici gli consigliano (“se Dio è contro di te devi aver fatto qualcosa contro di lui”), ma non accetta nemmeno di bestemmiare Dio come la moglie consiglia. Riflette su se stesso mantenendo la stima di non colpevole. Arriverà Dio a confermargli la correttezza della sua posizione. Posizione depressiva che non è attualmente esperienza di moda.  La società bolla l’insuccesso come la depressione a meno di farne un uso commerciale, specifico compito dello specialista. Si intreccia di nuovo un modello sociale con una storia personale e una struttura di personalità. L’attaccamento alla madre impedisce fughe, la scarsa abitudine ad insuccessi e la sensazione che questi siano il solo valore riconosciuto, lo bloccano come “un’ostrica allo scoglio”. Persona ricca, intelligente, sensibile, colta, è immobilizzato nel disporre delle proprie risorse in un’analisi più generale della sua depressione che lo porti ad un cambiamento creativo, ad una crescita. Incide l’età, l’educazione, l’ambiente, la cultura, ma soprattutto, ancora di più, la sua sfiducia, la vergogna che lo porta a non fidarsi degli altri in una solitudine triste. Ed incide di nuovo in modo deleterio un bombardamento di notizie sull’economia, contraddittorie ma prevalenti, permeanti tutto lo spazio mentale. Lui è di fronte al suo computer e ai suoi numeri. Riuscirà a chiuderlo anche se non continuerà un martellamento mediatico così “falsamente” specifico.
Forse lo inchioda anche la speranza del recupero, come il giocatore catturato, ma il fatto che non dipenda da lui gli fa sentire una maggiore sofferente impotenza.
La reazione dell’unica donna intervistata fa pensare ad una reticenza del tutto femminile: la donna tiene per sé i suoi sentimenti, conscia della sua responsabilità verso la famiglia, figlia, madre, marito. E afferma: “ le donne non si suicidano”. Non parlano, tengono, tengono proprio quando i momenti sono più difficili.
Ancora la sua storia personale e la sua educazione incidono, ma anche la sua personalità particolarmente pronta a riparare piuttosto che ad essere aiutata.
La persona colpita da eventi improvvisi, inaspettati, traumatici, violenti che sconvolgono il setting di vita cercano da sole o con l’aiuto di altri il modo per reagire all’esperienza di lutto, cercano un cambiamento tollerabile e conciliabile con il proseguimento della loro vita, soffrono, ripensano, pensano “dentro”. Ma la società attuale aiuta questo processo vitale? O piuttosto soffoca con pensieri collettivi accattivanti e/o manipolatori un pensare depressivo e critico? Quello di Giobbe che gli permise di superare le sventure e rincontrare “Dio” cioè il superamento della disperazione e la conservazione della propria autostima.
Negare la tolleranza all’insuccesso e alla depressione, al fallimento e alla tristezza e cercare soluzioni magiche, esterne e fatali, colpevolizzanti altro ed altri, allontanano persone diverse con potenzialità e storie differenti dal riprendersi in mano le loro risorse. Questa può essere una riflessione semplicistica ma vuole invitare a lasciar perdere i dogmi economici, psicologici e sociali trasmessi dai media.

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