Vaso di Pandora

Verso un nuovo patto sociale

Attualità e prospettive dell’imputabilità della persona con disturbi mentali: la proposta di legge n. 950/2023 Alfredo Antoniozzi

Introduzione

La chiusura degli OPG, in attuazione della legge 81/2014, ha determinato i problemi che sono stati ben rappresentati dai colleghi Giuseppe Nicolò e Angelo Fioritti che ringrazio. I Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) avvertono un carico crescente con difficoltà a farvi fronte (liste di attesa) e rilevano sia una carenza di risorse, sia un utilizzo inappropriato in particolare dovuto a ricoveri in SPDC per ragioni giudiziarie e di persone con psicopatia in REMS, la libertà vigilata da eseguirsi in Residenze per lunghi periodi. A questo si aggiunge un clima non sereno, relazioni difficili tra i diversi attori. Una situazione che richiede azioni che, in un sistema complesso e interistituzionale, possono essere a diversi livelli.

Modifiche legislative

Uno di questi è quello legislativo. Oggi parliamo della proposta dell’On. Alfredo Antoniozzi la quale tende a ridurre gli spazi della non imputabilità attraverso la modifica “chirurgica” dell’art. 88 c.p. contrastando così la tendenza, favorita dalla c.d. “Sentenza Raso”[1], a considerare non imputabili le persone con disturbi gravi della personalità.

Le soluzioni proposte sono la modifica degli artt. 88 e 89 del codice penale che sono sostituiti da:

 “Art. 88. – (Vizio totale di mente) –

Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in evidente stato di grave alterazione delle condizioni psichiche, di tipo psicotico, e del comportamento, tale da escludere totalmente la capacità d’intendere o di volere”.

Art. 2. (Modifica dell’articolo 89 del codice penale)

1. L’articolo 89 del codice penale è sostituito dal seguente: «Art. 89. – (Vizio parziale di mente) –

Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in evidente stato di grave alterazione delle condizioni psichiche, di tipo psicotico, e del comportamento, tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita “.

Rispetto all’attuale formulazione dell’art.88 c.p. “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità’, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere.” scompare il concetto di “infermità” in favore di un “evidente stato di grave alterazione delle condizioni psichiche di tipo psicotico, e del comportamento”.

In fase applicativa diviene quindi fondamentale la definizione delle gravi alterazioni delle condizioni psichiche di “tipo psicotico” con un’eplicitazione dei riferimenti diagnostici ma credo sia necessaria anche una riflessione psicopatologica. Ciò è tanto più necessario in quanto nella presentazione viene scritto: “Vi è da sottolineare che si intende per dimensione psicotica qualsiasi condizione, oltre alle psicosi classiche, presenti un’alterazione evidente del test di realtà in senso psicotico.” Si parla quindi di “dimensione” e ciò rende difficile tracciare il limite tra psicotico e non psicotico.

Si pensi ad esempio ai disturbi deliranti e il loro confine con gli stati passionali (delirio di gelosia e gelosia) oppure alla possibilità di avere sintomi psicotici transitori anche nei gravi disturbi della personalità, forme attenuate, transitorie o psicosi da uso di sostanze la cui valutazione viene rimessa ai periti. Senza il concetto di infermità resta anche da definire dove siano collocabili le disabilità intellettive, i disturbi del neurosviluppo e neurodegenerativi che possono avere o meno sintomi psicotici e alterazioni comportamentali.  Tutti dettagli che potranno essere chiariti ma che vanno tenuti presenti.

In sostanza appare chiara la volontà dei proponenti che mirano anche “a tutelare chi non è punibile a causa di gravi condizioni psichiatriche, come la psicosi” ma viene da chiedersi se la formulazione adottata possa essere efficace allo scopo che intende raggiungere. La riduzione della non imputabilità viene anche sostenuta da un’affermazione di ambito psichiatrico “per il disturbo antisociale i trattamenti sanitari sono quasi del tutto inefficaci.” In questo emerge anche l’apprezzabile intenzione di evitare l’ingresso di queste persone in REMS preservandone così l’attività terapeutico riabilitativa in favore di altri utenti.

La proposta di legge lascia intatto il doppio binario, la nozione di pericolosità sociale e le misure di sicurezza. Al di là della formulazione giuridica ha il merito di tenere acceso il dibattito culturale e richiamare alla responsabilità la persona appare un elemento molto utile. In questo seppure in modo diverso trova collegamenti con la proposta di legge n 1.119 dell’ on Magi presentata nel seminario di luglio che prevede l’abolizione degli artt. 88 e 89 e il superamento del doppio binario. Entrambe le proposte portano con sé la necessità di interventi sul sistema dei servizi e gli Istituti di Pena.

Come già hanno ricordato i colleghi, oltre all’art 88 del c.p. altri sono gli interventi legislativi che potrebbero essere attuati:

Abolire seminfermità (art. 89): è anacronistico che una persona dopo avere scontato una pena seppure diminuita sia sottoposta ad una misura di sicurezza detentiva;

Abolire misure di sicurezza detentive provvisorie (art 206 c.p.) che riguardano il 40% delle persone in REMS e sono causa dell’80% delle detenzioni sine titulo.

Rendere flessibili le misure di sicurezza detentive (come le misure detentive) dando applicazione alla legge n. 67/2014 e quindi a misure alternative.

Dare coerenza anche terminologica al c.p. (all’art 222 è rimasto il ricovero in OPG quando questo è chiuso).

Si potrebbe agire cambiando le leggi sulle droghe (in Italia il 34% dei detenuti è in carcere per droga contro il 18% della media europea, e il 22% a livello mondiale) e ridurre la popolazione detenuta. Un’attenzione alle risorse e ai finanziamenti nelle diverse leggi è essenziale.

Un’attività interistituzionale

Se il piano legislativo è molto importante, in un sistema interistituzionale è fondamentale coordinare le azioni applicative multilivello. Infatti, le leggi diventano viventi tramite istituzioni, organizzazioni diverse: magistratura, avvocatura, periti, magistratura sorveglianza, amministrazione penitenziaria, UEPE, Garanti DSM, servizi sociali, che operano in contesti culturali nei quali conta molto il patto sociale, l’attesa dei cittadini. Se la misura del proscioglimento è un modo per evitare la pena e il carcere, ciò colpisce la sensibilità sociale e crea sdegno e senso di ingiustizia. La persona che commette reati deve sentire la parola della legge sia in termini di pena che di interventi multidimensionali in grado di promuovere responsabilità, doveri e diritti.  Al contempo serve più attenzione e tutela delle vittime.

E’ quindi importante continuare il lavoro tra le istituzioni, il dialogo, le collaborazioni nelle diverse forme ( tavoli, cruscotti, protocolli) al fine di identificare e promuovere le buone pratiche. Un modo, forse l’unico per definire i mandati, creare un equilibrio tra loro, abitare e comporre le contraddizioni. E’ questo uno dei punti chiave della nuova normativa, e non ci si deve stancare di perseguire le collaborazioni, di comprendere diversi punti di vista.  

A questo proposito credo sia importante richiamare l’Accordo per la gestione dei pazienti psichiatrici con misura di sicurezza approvato il 30 novembre 2022 dalla Conferenza Stato-Regioni che è il risultato del dialogo interistituzionale svoltosi presso il Tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria. Il documento prevede la creazione di due organismi: una “Cabina di regia nazionale” che si affianca all’“Organismo di Coordinamento per il superamento dell’OPG” presso il Ministero della Salute; e un “Punto Unico Regionale” con l’obiettivo di supportare l’Autorità giudiziaria, di fungere da raccordo con i Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) e di promuovere Protocolli locali. Questi hanno l’obiettivo di elaborare “condivisi percorsi assistenziali” per i quali sono essenziali, oltre ai periti, il consenso e la partecipazione del paziente, nonché l’attività di avvocati, amministratori di sostegno e garanti che andranno coinvolti a tutti i livelli.

I criteri per la gestione della lista di attesa, oltre a quello temporale, sono le “caratteristiche sanitarie” del paziente, “il livello attuale di inappropriatezza della collocazione” in Istituto Penitenziario o in SPDC e dell’adeguatezza di “alternative alla REMS” mentre non viene indicata la gravità del reato.

Una linea, quella della collaborazione interistituzionale, fortemente auspicata da Consiglio Superiore della Magistratura, Comitato Nazionale per la Bioetica.

Una collaborazione che può attraverso il dialogo e la concertazione dei tempi anche prevenire il determinarsi delle detenzioni sine titulo.

Ai sensi dell’art 27 della Costituzione la pena ha una pluralità di funzioni: retributiva, rieducativa attraverso un’azione trattamentale, reinclusione sociale, prevenzione di nuovi reati, riparativa. E durante la pena sono assicurati i diritti e nel limite del possibile andrebbero preservate le attività nelle quali la persona funziona bene (ad es. il lavoro, il ruolo genitoriale ecc.).

Dal punto di vista della salute occorre analizzare la pluralità dei bisogni e quindi vi è la necessità di una presa in carico di tutti i determinanti della salute secondo i principi della rilevabilità dei fenomeni, della loro modificabilità e infine del principio euristico, cioè dell’efficacia. In sostanza ogni intervento dovrebbe essere valutato alla luce di questi criteri. E’ difficile creare inclusione senza avere i documenti o senza affrontare le povertà.  E’ difficile farlo se i servizi sono carenti di personale e risorse. Ma oltre a questo occorre ricordare che i problemi complessi richiedono una leale collaborazione interistituzionale. Una chiarezza dei ruoli che è fondamentale per evitare deleghe improprie, richieste di controlli impossibili, funzioni custodiali e coercitive, magari sotto la minaccia della posizione di garanzia. Questo dovrebbe anche portare al superamento della prassi per la quale ricoveri e dimissioni dalla REMS ma anche da Residenze sono decise dal magistrato e non dal medico. In sostanza ciascuna istituzione deve sviluppare con la persona un patto, possibilmente coordinato ma dotato di una propria autonomia e logica.

La Cura

Quale rapporto tra il diritto alla salute della persona e il diritto alla sicurezza della collettività? E nel caso dei disturbi mentali quale spazio per la coercizione alla cura?

Su questo il riferimento è la legge 180. Al di fuori di questa, che per altro andrebbe migliorata in termini di garanzie, non vi può essere cura e riabilitazione in medicina senza il consenso e la partecipazione della persona.

Nella sentenza n. 22/2022 la Corte Costituzionale ritiene che “l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria”. “L’assegnazione in parola consiste, anzitutto, in una misura limitativa della libertà personale – il che è evidenziato già dalla circostanza che al soggetto interessato può essere legittimamente impedito di allontanarsi dalla REMS. Durante la sua esecuzione possono essere praticati al paziente trattamenti sanitari coattivi, ossia attuabili nonostante l’eventuale volontà contraria del paziente. Essa si distingue, peraltro, dal trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale disciplinato dagli articoli da 33 a 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), esso pure di carattere coattivo, giacché:

– presuppone non solo a) una situazione di malattia mentale (un «vizio di mente», secondo la terminologia del codice penale), ma anche b) la previa commissione di un fatto costitutivo di reato da parte del soggetto che vi deve essere sottoposto (art. 202 cod. pen.), nonché c) una valutazione di pericolosità sociale di quest’ultimo (ancora, art. 202 cod. pen.), intesa quale probabilità di commissione di nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (art. 203 cod. pen.);

– è applicata non già dall’autorità amministrativa con successiva convalida giurisdizionale, come nell’ipotesi disciplinata dall’art. 35 della legge n. 833 del 1978, bensì dal giudice penale, con la sentenza che accerta il fatto (art. 222 cod. pen.) ovvero in via provvisoria (art. 206 cod. pen.);

– sulla sua concreta esecuzione sovraintende il magistrato di sorveglianza”.

Viene da chiedersi perché per la persona con disturbi mentali non dovrebbero valere la legge 180/1978 e la legge 219/2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, la legge 18/2009 che ratifica la Dichiarazione sui diritti delle persone con disabilità?

Come possa imporsi sulla base di un provvedimento penale, la misura di sicurezza detentiva, una cura (Per quali disturbi? Quale terapia? Come? Per quanto tempo? Dove? Con quali strumenti? Garanzie?) creando una situazione che non esiste per nessun altra persona, condannata o libera. Una discriminazione del malato mentale, contraria a norme internazionali, nazionali ma soprattutto alle conoscenze scientifiche e alle pratiche di cura basate sui diritti e la recovery. Una via che se perseguita porterebbe ad una nuova grande istituzionalizzazione delle persone con disturbi mentali.

Del resto la Corte Costituzionale nella stessa sentenza scrive: “La natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico che l’assegnazione in una REMS conserva nella legislazione vigente comporta, peraltro, la necessità che essa si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori” cioè alla legge 180/1978.

Per risolvere questi problemi,  la Corte Costituzionale rimanda al legislatore ma per cogliere la complessità del rapporto tra cura della persona e tutela della collettività è essenziale ricordare quanto la stessa Corte ha scritto nella sentenza 253/2003: “le misure di sicurezza rispondono a entrambe le finalità collegate e non scindibili” e aggiunge “le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da arrecare danno anziché vantaggio, alla salute del paziente” e prosegue “ ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rilevasse tale da arrecare presumibilmente danno alla salute psichica dell’infermo, non la si potrebbe considerare giustificata in nome di tali esigenze”. 

In altre parole vi è una priorità del diritto alla salute.

Ancora la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 99/2019 sulla sopraggiunta infermità mentale in carcere, nel prevedere la “detenzione umanitaria” o “in deroga” esige un’attenta valutazione caso per caso, momento per momento tra finalità terapeutica e protezione e sicurezza della collettività. Un equilibrato accomodamento fra interessi contrapposti, potenzialmente conflittuali che possono essere composti mediante un’adeguata collaborazione tra le istituzioni. Il mandato di cura alla sanità e al sociale mentre quello di protezione, controllo e sicurezza a Giustizia e Forze dell’Ordine.

E’ in questo quadro che possono migliorare le condizioni della cura, che è basata su consenso e partecipazione della persona (“nulla su di me senza di me”). Al contempo su una chiara esplicitazione delle indicazioni, rischi/benefici, limiti ed efficacia delle terapie. Siamo in un ambito, quello sanitario, dove molte patologie ancora non trovano risposte adeguate.  La psichiatria non fa eccezione (si pensi i disturbi gravi della personalità e alla psicopatia, ma anche a molte forme psicotiche “resistenti”) ed è quindi necessario rendere evidente il grado di conoscenza facendo cadere ogni alone di magica onnipotenza che ancora pervade la disciplina. Ancora occorre che il modello di riferimento sia olistico, biopsicosociale, ambientale e culturale e sempre sia prevista la presa in carico anche sociale.

Nella linea che tende a chiarire le competenze segnalo lo schema operativo sull’applicazione della Giustizia riparativa del Tribunale di Milano[2]  che prevede il consenso per accedere al programma, il divieto di valutare negativamente il mancato avvio del programma, la interruzione, ovvero il mancato raggiungimento e soprattutto dà garanzia assoluta della riservatezza.

Principi assai apprezzabili in quanto creano le migliori condizioni per la riuscita del programma. Esse sono ben diverse da quelle che oggi vengono vissute dagli operatori e dagli stessi utenti. La misura di sicurezza non è capita, spesso non è accettata, vi è confusione tra cura, controllo e custodia, tra sintomi e agiti antigiuridici, la giustizia appare spesso distante e talora kafkiana, segreto e obbligo di riferire. Sono certo che la magistratura saprà creare le condizioni per superare questa situazione contribuendo a creare una linea chiara che dia certezza agli operatori e agli utenti e crei le migliori condizioni per la riuscita di tutti gli aspetti del percorso.

I DSM non hanno solo da affrontare i percorsi giudiziari tradizionali ma sono sempre più coinvolti nel dare applicazione al Codice Rosso, ai reati intrafamiliari, ai comportamenti antigiuridici di adolescenti e giovani adulti, sex offenders, reati di stalking e relazioni interpersonali problematiche. Tutto questo prima della verifica dell’imputabilità e spesso anche di una sentenza di condanna. Si tratta di ambiti nuovi che richiedono, studio, innovazione e ricerca. E’ quindi fondamentale il superamento delle ambiguità, la definizione dei mandati di cura, controllo, prevenzione di nuovi reati e protezione sociale secondo i diversi mandati propri delle istituzioni chiamate a collaborare e senza deleghe improprie.

Credo che sia la via per affrontare in una visione unitaria, la questione della salute mentale nei diversi ambiti, compresi gli Istituti di pena, le Articolazioni Tutela Salute Mentale e promuovere misure alternative (anche con Case dedicate), percorsi giudiziari con budget di salute.

Infine una riflessione sui nostri servizi di salute mentale: se da un lato è giusto rilevare l’inappropriatezza nell’utilizzo del sistema, si pensi ai ricoveri in SPDC per mere ragioni giudiziarie o l’utilizzo inappropriato delle REMS e ancor più delle Residenze, dall’altro dobbiamo ammettere che i pazienti psichiatrici “doc”, “puri” sono sempre meno. Quindi i quadri clinici sono per lo più caratterizzati da una multicomplessità sanitaria e sociale con un intreccio di sintomi diversi anche psicotici, uso di sostanze e Disturbi della Personalità. Percorsi spesso esito di violenze, abbandono, neglect in età evolutiva, povertà educative ed economiche, abbandono scolastico, fragilità, problemi familiari e sociali.  Oltre a questo i DSM stanno per essere investiti da persone con disturbi del neurosviluppo (autismo) e con gravi alterazioni comportamentali che richiedono diverse innovazioni.

Se la linea della riduzione della non imputabilità è interessante in particolare per le persone con Distrubi Gravi della Personalità e la Psicopatia, la formulazione proposta dall’on. Antoniozzi va approfondita per la parte applicativa alla luce di nuovi concetti introdotti. Viene da chiedersi se non sarebbe meglio unire gli sforzi e perseguire il pieno riconoscimento della imputabilità intesa come diritto di tutte le persone ad essere giudicate.


[1] Corte di Cassazione n 9163/2005

[2] Corte d’Appello di Milano Prot 9041/Pres./2023 oggetto: Schema operativo per l’applicazione degli istituti della giustizia riparativa

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Commenti su "Verso un nuovo patto sociale"

  1. Moltissimo c’è da fare, soprattutto investire sul giusto numero di personale qualificato e sulle buone pratiche che integrino le cure farmacologiche come lavoro, sport, artigianato, che diano dignità e formazione ed anche compenso remunerativo e valore sociale. Questo per tutti i pazienti siano in regime di sicurezza per reati sia per quelli gravi che devono continuare percorsi lunghi di riabilitazione. Percorsi individuali in base alle caratteristiche di ognuno.

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