Vaso di Pandora

Un secolo da Edgar Morin – il Diderot del Novecento

Commento all’articolo di A. Ginori apparso su La Repubblica, il 10/07/2021

Se nell’articolo – che esce in occasione del centesimo compleanno di Morin – lo si paragona a Diderot, è perché si riconosce  la vastità enciclopedica dei suoi interessi, programmatica e coerente con la sua diffidenza per le specializzazioni. Queste, pur necessarie  per lo sviluppo scientifico che ha trasformato la nostra vita (e complessivamente non certo in peggio) finiscono col costituire una barriera alla comunicazione e al realizzare quella visione unitaria del mondo cui non possiamo non aspirare.

  Edgar Morin dunque, senza essere psichiatra né psicologo né psicopatologo, ha offerto anche a noi una serie di spunti e indicazioni preziose; o per lo meno ci aiuta a ricordarle.  Se ne trova una sintesi in una operetta minore: un incontro, digitale e in presenza, mi pare del 2015, su   Etica e identità umana. Superfluo dire che il riferimento fondamentale è alla teoria della complessità; ma alla visone dell’autore non sono estranee altre  connesse materie: la teoria generale dei sistemi, la cibernetica col concetto di retroazione, la teoria dell’informazione la neurofisiologia.

  Non ci dice necessariamente cose nuove, ma aiuta a      inquadrarle in un’ottica, in una visione del mondo più generale.

   C’è la critica del concetto di causalità lineare, causa – effetto, in favore di quello di circolarità. In psichiatria, è la rinuncia a cercare la causa di un disturbo e del suo decorso, rendendoci conto che è frutto di una ricorsività. Nozione centrale nella terapia familiare, ma anche nella psicanalisi con l’intreccio di transfert e controtransfert; e nella cura degli psicotici gravi con i tanti feedback fra disturbi e ambiente (di cui fa parte l’intervento di cura con la sua qualità).

  Afferma  che l’organizzazione emerge in situazioni di non equilibrio:  quando all’ordine subentra il disordine, a questo può subentrare un nuovo livello di organizzazione. Aforisma di valenza generale, che ad esempio può applicarsi alla teoria dell’evoluzione, e nel nostro campo alla teoria della crisi.

  Ci ricorda l’impossibilità anche teorica dell’onniscienza, confermata oggi anche dai fisici, protagonisti di sconvolgenti progressi teorici e pratici, che però riconoscono la necessaria incompletezza di ogni teoria e l’esigenza, prima o poi, di superarla. La tensione è tra l’aspirazione a un sapere non parcellizzato, non settoriale, non riduttivo, e il riconoscimento dell’incompletezza e incompiutezza di ogni conoscenza.  L’invito è ad accettare l’incertezza; ciò ovviamente vale non soltanto nel valutare una teoria o prassi consolidata, ma anche ogni singolo approccio di cura.

. Va aggiunto che la qualità è possibile solo se le conoscenze non rimangono divise in settori rigidi, ma interconnesse. L’indebolimento della percezione del globale conduce all’indebolimento del senso di responsabilità e solidarietà: ricordiamo i dilemmi etici vissuti da alcuni – ma non da tutti! – i ricercatori a suo tempo impegnati nello sviluppo del nucleare.  In ambito più modesto, la cosa è vera anche per noi psichiatri se perdessimo il senso della multifattorialità che è sempre in gioco: basta pensare ai problemi tecnico – etici relativi all’impiego dei farmaci. L’invito di Morin è a coniugare sapere scientifico e sfera umanistica: e, in ambito più ristretto, è da superare la scissione fra psicologia e sociologia. Espressivamente afferma: l’uomo non è 30% individuo, 30% biologia, 30% società, ma 100% individuo, 100% biologia, 100% società, poiché in ogni parte c’è sempre il tutto.

 Pensare in modo complesso significa sentirsi meglio parte dell’umanità:  passare dall’Io allo sviluppo del “noi”. Ciò si applica radicalmente al nostro  rapporto col paziente, che nella sua dimensione anche etica richiede quella che Morin chiama saggezza: complicata interazione fra emozione  e ragione. Opportuno qui il riferimento ad Heidegger: “siamo ignoranti su ciò che significa essere umano”.   Importanti gli arricchimenti da letteratura, da poesia, arte, che  è “estetica e pensiero”. Ciò, fra parentesi, è stato sempre vero ma si è evidenziato meglio in certi sviluppi dell’arte contemporanea (o quasi): nell’arte concettuale la componente estetica si riduce in confronto al pensiero, al messaggio.

    Quanto sono seguiti oggi questi insegnamenti nel nostro campo? Fino a un certo punto, e soprattutto non da tutti. Credo infatti si assista a una nuova scissione, che subentra a quella classica fra visioni organicistiche e relazionali. Oggi si profila una scissione  fra la visione della conoscenza di cui stiamo trattando e l’aspirazione a oggettivare anche con categorizzazioni, espressioni e valutazioni numeriche, di cui abbiamo mille esempi sfogliando PubMed. Il problema  è che nella prassi entrambi gli approcci sono leciti e utili: il primo è fondamentale nel rapporto di cura con il paziente, dal secondo non si può prescindere nella ricerca epidemiologica e in particolare nella necessaria valutazione dei risultati dei vari interventi. Ma anche questo è un aspetto della complessità, della necessità di cogliere i differenti risvolti di un problema.

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