Premesso che ogni analisi è una storia a sé, la prima volta che vedo un paziente di solito sappiamo poco entrambi di quello che va ad accadere. Io non ho idea di ciò di cui ha bisogno ed essendo anche psichiatra, identità che nell’immaginario collettivo ha un suo peso, di solito all’inizio è quella cui si rivolgono le prime domande. L’altro ha naturalmente le sue idee e i suoi bisogni, ma spesso insieme si scopre che le cose sono più complicate di quello che si credeva.
Quindi la prima cosa è distinguere se quello che andiamo ad abitare è un modello medico o un modello psicologico. Alla fine di solito è una decisione che prendo io, il paziente non conosce abbastanza la differenza.
Una volta deciso che sarà analisi si tratta di fare il contratto, quello strano elenco di condizioni e di regole che contraddistinguono la psicoanalisi da molte altre forme di cura.
È probabile che lungo questo percorso l’idea del viaggio venga fuori, anche solo di sfuggita, ma non è essenziale. Probabilmente serve più a me, per farmi coraggio. Il paziente lo sa già, è un tale luogo comune… Se non è d’accordo il viaggio non inizierà, e la prima occasione, un avvenimento qualsiasi, sarà l’occasione per interrompere.
Fino a questo punto la metafora del viaggio è una descrizione, forse un modo per rappresentarsi un impegno, o addirittura, un modo per rendere eccitante qualcosa che invece si intuisce faticoso e ripetitivo.
Poi però ci si accorge col tempo che quello che era stato detto sta diventando vero, che nella stanza di analisi l’esterno diventa sfumato e il tempo e lo spazio dentro assumono delle qualità particolari e diverse, così come le parole e i gesti. Il viaggio é cominciato.
È di questa progressiva trasformazione di cui mi interessa di parlare qui, trasformazione che realizza una metafora che mi verrebbe da chiamare viva, secondo Ricoeur, incarnata, ma anche attiva, qualcosa che cercheremo di definire, che appartiene al potere dell’immaginazione, e che nasce dal corpo, dal movimento, dal senso.
Infine, questo progressivo incarnarsi, del rendersi visibile di ciò che era invisibile, attraverso una rappresentazione di esperienze emotive, di legami e di vissuti, che può avere un effetto trasformativo, mi verrebbe da dire catartico. Questo incarnarsi avviene, secondo me, nel regno del Tu, (come avrebbe detto Buber) o della creatura (come avrebbe detto Bateson).
Tutto questo percorso, che serve a giungere ad un racconto, e che diviene un lungo e duraturo svago, si realizza in un contesto definito, che chiamiamo setting, che porta ad una esperienza vissuta pienamente, ma consapevole nella misura in cui il paziente è pronto a viverla, tra l’atto quotidiano elementare al quale si attribuisce un senso implicito e la più intensa riflessione su di sé, che diventa, perché questa è la nostra natura, un racconto davanti al fuoco. In mezzo l’immaginazione, che sa da ponte tra implicito ed esplicito, tra soggetto e oggetto tra sé e il mondo.