Venerdì scorso vengo invitata a commentare l’articolo di Susanna Tamaro: “L’orrore in diretta dei senza scrupoli: gli abusi in tv su bimbi e malati” pubblicato sul Corriere Della Sera. L’autrice descrive e cerca di dare una spiegazione circa i tanti episodi di vergognosa violenza sui bambini e i disabili,
negli asili e nelle case di cura, di cui veniamo, ormai quotidianamente informati dai mass-media.
Mi ritrovo a scrivere in seguito ad una giornata particolare: ieri pomeriggio uno degli operatori della Comunità di cui sono responsabile ha subito un’aggressione da parte di una delle ospiti. La ragazza è fuggita dalla Comunità e mentre veniva ricondotta dagli educatori in turno ha improvvisamente sferrato un pugno sul naso ad uno di essi, proprio nel momento in cui appariva più tranquilla.
Fortunatamente, tali aggressioni sono piuttosto infrequenti, ma purtroppo talvolta accadono e spingono tutta l’équipe a riflettere su quanto accaduto. Questa mattina alcuni operatori, durante la riunione settimanale, apparivano molto scossi e si sono interrogati sulle loro reazioni di fronte ad un’aggressione così violenta e oltretutto immotivata; alcuni di loro si mostravano timorosi: “Io non so come potrei comportarmi di fronte a questo tipo di violenza, lui non ha reagito, ma non so se io ci sarei riuscita a fare altrettanto e questo mi spaventa molto”. Questo argomento mi viene portato da una delle operatrici più concilianti e pazienti della struttura, si tratta di un tema cruciale e non posso che riflettere su di esso. Mi spavento anch’io di quanto affermato e mi chiedo se questo può avere una qualche attinenza con quello che ho letto nell’articolo della Tamaro.
Cosa genera la violenza? E quali sono gli strumenti che abbiamo noi operatori per arginarla? E’ possibile prevenire gli episodi di aggressività sia da parte degli ospiti che da parte degli operatori?
Tante domande affollano la mia mente, ma non riesco ad avanzare delle ipotesi esaustive circa le motivazioni che possano spingere un adulto nel pieno delle sue facoltà mentali ad utilizzare violenza gratuita nei confronti di persone inermi come bambini o anziani allettati. Dubito che la teoria della Tamaro circa l’”uomo Hobbes”, senza scrupoli o fisime etiche mosso unicamente dal desiderio primario di sopravvivenza, possa dare un’interpretazione sufficiente di tale abominio. Credo, invece, che in questi casi sia proprio il concetto di humanitas che viene a mancare, in particolare nel riconoscimento dell’altro quale portatore di diritti e sentimenti. In termini psicologici queste persone non avrebbero sviluppato competenze sociali ed emotive quali l’empatia, al momento in non risulta presente la capacità di comprendere gli stati d’animo altrui. La persona in difficoltà, dunque, viene spogliata dei propri attributi che la rendono umana, diventando possibile oggetto di soprusi. Non credo che, tuttavia, questa spiegazione sia sufficiente; non basta neanche tenere in considerazione il rapporto causa effetto tra frustrazione e aggressività, frustrazione sicuramente spesso generata dalle condizioni precarie e avvilenti di lavoro degli operatori assunti in alcune di queste strutture.
Cercherò, quindi, di ribaltare il punto di vista, interrogandomi, così come mi ero riproposta all’inizio dell’articolo, su cosa può, invece, metterci al riparo da tali episodi, alla luce anche delle difficoltà oggettive di chi si trova a lavorare con ospiti spesso violenti o aggressivi.
Sono convinta che una buona formazione universitaria possa tutelarci da situazioni di violenza generata dalle difficoltà nel comprendere gli agiti dei pazienti. Riuscire a dare un significato a quanto sta accadendo è il primo passo per arginare le risposte reattive incondizionate. Strumento altrettanto essenziale risulta essere la formazione continua, quale canale per rinfrescare nozioni teoriche che con il tempo possono diventare obsolete e perdersi nella pratica della quotidianità.
Ma non è solo la pura teoria che può renderci più forti: i momenti di aggregazione dell’équipe sono il nucleo centrale del lavoro comunitario. Durante le riunioni diventa fondamentale dare una lettura dei comportamenti dei pazienti alla luce della loro storia personale: dare un significato è il primo passo verso la consapevolezza di non essere le vittime predestinate dei loro agiti e, dunque, a non reagire con eccessiva frustrazione (e dunque aggressività) se eccessivamente stimolati. Anche la supervisione (personale e non), alla luce di tutto ciò, diviene un momento cruciale, non solo per indirizzare l’équipe circa il progetto terapeutico di ciascun paziente, ma anche nella ricerca di ulteriori significati non sempre attribuibili dall’interno.
A livello pratico è importante strutturare i turni e le giornate i maniera sempre attenta, pianificando le attività e prestando attenzione sia ai bisogni dei pazienti che a quelli degli operatori. E’ fondamentale non sovraccaricare gli educatori e gli infermieri, nel tentativo di evitare fenomeni di burn-out, molto spesso legati alle eccessive richieste operate nei confronti di questi ultimi.
Per quanto riguarda i dirigenti è fondamentale essere presenti, tanto per i pazienti quanto per gli operatori, al fine di sostenere (ma anche sorvegliare) chi lavora in prima linea. La sensazione di solitudine, infatti, non può che generare ulteriori insoddisfazioni.
E’ sufficiente tutto questo per evitare fenomeni di violenza? Torno, dunque, alla domanda postami stamane dal mio collaboratore: “Come reagirei di fronte al dolore fisico?”. Di fronte a questa domanda questa mattina sono rimasta in silenzio, non ho saputo rispondere. Non ho saputo rispondere sapendo che spesso il nostro lavoro è difficile e ci mette costantemente di fronte ai nostri limiti fisici e psicologici. Certo, ovviamente l’obiettivo è arginare l’aggressività degli ospiti per evitare non solo reazioni esplosive da parte degli operatori (che per altro avrebbero una portata differente rispetto agli abomini descritti dai giornali), ma anche e soprattutto per proteggere chi in quel momento sta facendo il proprio lavoro, ma come sappiamo non sempre è possibile prevenire tali condotte. Quindi, mi accingo a rispondere ora all’operatrice, così come avrei voluto fare stamattina. Sono contenta che lei si sia posta questo problema, perché stare zitti e non condividere le proprie angosce sul lavoro non è la soluzione. Non siamo onnipotenti e la paura, soprattutto in situazioni di grave emergenza, può avere il sopravvento, ma il fatto che abbia avuto il coraggio di parlarne è il primo passo per evitare circostanze ancora più difficili.
Ecco che, dunque, mi torna anche più chiaro cosa possa spingere una persona ad una violenza così riprovevole come quella descritta dalla Tamaro. E’ il delirio di onnipotenza, il narcisismo più sfrenato che può portare, a mio parere, a disumanizzare il prossimo e a renderlo vittima di tali abusi. La mancanza di etica deriva, quindi, non dal disconoscimento dei valori cristiani né dalla concezione meccanicistica di Hobbes per cui non può esistere ragione che guidi la scelta morale, ma dalla deliberata convinzione di essere al di sopra dell’umano.
E’ quindi la deriva narcisistica della nostra società a scatenare tali comportamenti, di conseguenza, in conclusione, solo il riconoscimento delle nostre mancanze e dei nostri limiti in quanto esseri umani può portarci ad una relazione sana e terapeutica con il paziente anche quando questo è particolarmente difficile.