Vaso di Pandora

Trattabili sì, trattabili no

Il problema della trattabilità di un soggetto autore di reato giudicato parzialmente incapace di intendere e volere che ha trascorso oltre 15 anni in carcere che dev’essere inviato in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, è centrale per valutare chi deve fare e che cosa.

Non entro nel merito di cosa sia il parziale vizio di mente perché non sono competente anche se mi pare un concetto per alcuni versi contraddittorio.
Ritengo però che si possa affermare che una persona incarcerata per un grave delitto quando viene trasferita in una Rems non può essere trattata dal punto di vista psichiatrico.

Mi chiederete perché: la risposta è perché la sua identità ormai consolidata non è quella di paziente psichiatrico ma di delinquente e ad essa non può rinunciare perché evidentemente contraddirebbe il fatto che aveva un vizio di mente, seppur parziale.
Se accettasse di essere curato con un intervento biopsicosociale sarebbe sulla via della consapevolezza e avrebbe superato quel narcisismo maligno che ha determinato la sua azione delittuosa.

Quindi, se non è trattabile è inutile che vada in una Rems terapeutica, deve andare in una Rems che lo custodisca così come erano gli ospedali psichiatrici giudiziari che avevano al loro interno la polizia penitenziaria e che assomigliavano più al carcere anche se nella definizione si faceva riferimento all’ospedale e quindi alla cura.

La residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza non cita nel titolo la cura anche se tutti dicono che rappresenta il superamento degli Opg e che la terapia diventa prevalente sulla custodia.

Ambiguità, confusione, contraddizioni che mettono a dura prova e a rischio ospiti ed operatori costretti a convivere con l’impossibilità di trattare i casi per i veri bisogni e con i mezzi idonei.

Quindi che fare: direi che si dovrebbero lasciare gli operatori sanitari liberi di valutare le proposte di inserimento nella Rems se questa è terapeutica.
Propongo di rinominare, Nomen Omen, la struttura in Spdcc ovvero servizio psichiatrico di diagnosi, cura e custodia (lo si accoglie, lo si conosce, si fa una diagnosi nel contesto della struttura terapeutica e si valuta un progetto terapeutico individuale oltre una prognosi; contestualmente si provvede a proteggerlo e custodirlo).

La mia esperienza con gli ultimi, persone disperate, angosciate, misconosciute, violentate mi ha insegnato che questi possono essere curati purché si sia coerenti con la capacità di cogliere il vero bisogno di chi ci si propone, capaci di comprendere, condividere e se necessario compatire.

Non possono essere trattati terapeuticamente coloro che non sono scalfibili (come la pioggia che scivola sui vetri), chiusi nel loro narcisismo pernicioso, per costoro sono necessari interventi educativi di altro genere che anche un carcere moderno ed indirizzato umanamente può realizzare.

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Commenti su "Trattabili sì, trattabili no"

  1. Condivido totalmente.
    Così, a briglie sciolte, oserei andare oltre e, dato che la gestione dei pazienti è affidata esclusivamente a operatori sanitari – viste la insuperabili difficoltà nel coinvolgere la Polizia Penitenziaria – della Rems e (ancora troppo poco) dei servizi territoriali, potremmo avere una via giuridico-sanitaria per stabilire, con criteri medici, attraverso l’osservazione e i risultati dei tentativi terapeutici, se il paziente è trattabile in una Rems oppure no, se si giova della cura o almeno della permanenza in essa o se questa non fa altro che elicitare i comportamenti antisociali appresi e ormai identitari.
    Potrebbe farlo un organo terzo, individuato all’interno del dipartimento dell’Asl di competenza (Ufpf?), con la nostra collaborazione e l’estrapolazione dei dati utili da Oida system.
    Tutto ciò nell’interesse di tutti: i magistrati si avvallerebbero di consulenti competenti per il caso specifico; i dipartimenti sarebbero maggiormente chiamati in causa e potrebbero cogliere l’occasione per avere elementi in grado di costruire, o meno, adeguati percorsi di cura e presa in carico; gli operatori Rems avrebbero anche un ruolo che riconosce gli sforzi che comporta l’osservazione del paziente non trattabile; il paziente, soprattutto, eviterebbe permanenze iatrogene in ambito non adeguato; infine, la popolazione che vive nelle zone limitrofe avrebbe maggiori garanzie di sicurezza.

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  2. Molto significativo il contributo di Gianni. Come tante azioni politiche che hanno attraversato gli anni della mia esperienza professionale anche la chiusura degli opg ha mostrato alcune grossolane ingenuità. Tutte sul registro dell’agire prima di pensare. Sarà un analogo disastro lo stop contenzione negli spdc. Concetto giusto, ma azione scomposta e dissociata.
    Sul piano psicopatologico ho un dubbio sul narcisismo maligno. Mi piacerebbe un confronto vivo e a più voci sulla natura di queste intrattabilita’.

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  3. Grazie Paolo e Federico.
    Vorrei fosse chiaro che sono contrario a riproporre schemi del passato, quindi no a presenza di polizia in qualsiasi veste in strutture sanitarie; invece sì a occuparsi di Prevenzione della violenza con azioni educative e con strumenti adeguati adeguati: competenza nel contenimento fisico relazionale e tecniche di autodifesa.
    Per quanto riguarda il narcisismo maligno o pernicioso, come lo chiamo io, potremmo discuterne per mesi e lo faremo.
    Io intendo quella situazione caratteriale definita dalla convinzione di essere in credito con la vita e di potere tutto, anche distruggerne un’altra per questo motivo, condita da un leggero sadismo.

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  4. Poter vivere distruggendo, attaccando, umiliando, ferendo. Vivere sentirsi vivi così.
    La vita sicuramente ha provocato vuoti e lacerazioni da cui è possibile non poterne più uscire.
    Nella mia esperienza ho avuto situazioni del genere… e ho fatto l’incredibile per allontanarle da contesti psi
    (qualcuno ricorda a Redalloggio una persona così).
    Sono d’accordo sulle difficoltà che l’ingenuità provoca. Ma queste si risolvono ascoltando chi vive l’esperienza di cura ed anche la dichiarazione di impotenza di cura e modificando decisioni precedenti non ancorandosi ad ideologie. Il rispetto della persona è anche tollerare che la si debba fermare, che si debba dichiarare la propria impotenza. Il rispetto dell’altro non è lasciarlo distruggere.
    Francamente da vecchia sono stanca che solo difronte ad eventi eclatanti si ripensino strategie, si cerchino soluzioni dopo sofferenze evitabili e fatiche assurde.
    Pienamente d’accordo con Gianni sul compito della Rems come già detto ambiguo, impossibile se con compiti di custodia e obbligo di cura di chi non è curabile insieme a chi invece è curabile ma si trova in un contesto di custodia che limita fortemente la sua possibilità di identificare i curanti come curanti e non ‘guardie’. Il filtro qual è? Le perizie? Domanda ingenua o provocatoria?

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  5. La Trattabilità della Violenza.

    Gianni ci consegna con una puntualità disarmante e con la sua capacità visionaria, parole inedite di fronte a un interrogativo che in fondo ci accompagna da sempre, come il mito della Medusa ci ricorda.

    Siamo o no capaci di misurarci e confrontarci con lo sguardo fisso e attonito della Medusa?
    Questa è la storia di come una giovane donna è diventata un mostro. Medusa è l’unica mortale in una famiglia di Dèi.
    Quando la bramosia spinge Poseidone a commettere un atto imperdonabile, la vita di Medusa viene sconvolta per sempre: Atena, oltraggiata e gelosa, scaglia la sua vendetta sull’innocente ragazza, trasformandola in una Gorgone con i capelli di serpente e uno sguardo che tramuta in pietra chiunque osi incrociarlo. Inorridita dai propri poteri, Medusa non può più guardare le persone che ama senza distruggerle – proprio lei che invece avrebbe voluto proteggerle –, e si condanna a una vita di solitudine ed esilio. Almeno fino a quando Perseo, il figlio di Zeus e Danae, non si imbarca in un’eroica impresa per aggiudicarsi la sua testa. Ma chi dei due può chiamarsi eroe? Chi dei due è realmente il mostro? E soprattutto, cosa significa essere un mostro? Cosa è il Male e che rapporto vi è tra Male e Violenza?
    Possiamo noi costruire una terapia per uomini e donne oppressi dalla solitudine del Male, atterriti dalla assenza dei sentimenti, straniati dalla perdita dell’empatia e della solidarietà?
    E poi, di fronte alla banalità del male di vite spaesate, a persone che conoscono la perdita di rapporti autentici, a vite alla deriva soffocate dalla paura della dissoluzione e della morte è saggio essere eroi.
    Siamo noi medici e operatori sanitari gli interlocutori dei bisogni dell’anima dell’altro, quando lo stesso non lo desidera. Siamo noi capaci di sostituire logos al bios e dare voce all’indicibile.

    I medici legali, medici dell’ultima sosta (come li definisco sempre) e quindi assai disinvolti ma certo concreti, amano dire : tutto è trattabile, ma non tutto è sanabile. Ma cosa significa trattare nel nostro caso? Trattenere, intrattenere, custodire e custodire cosa?
    Ebbene, condivido con Gianni la riflessione sulla confusione, sulla distrazione a cui aggiungo il buonismo ingenuo e l’ipocrisia che accompagnano da sempre la vita sociopolitica e anche il nostro operare.
    Forse occorre riconoscere anche l’impenetrabilità dell’altro, l’esotismo radicale d’ultimo, che rende impossibile l’incontro e lo scambio, l’irredentismo e l’estraneità del soggetto che definiamo malato, parzialmente malato, semi malato e altre banalità del genere.
    A mio parere niente psicologia, è sempre la cosa peggiore. Scartare la possibilità di forme simboliche e l’intelligibilità dell’ Altro. La cosa peggiore è la comprensione, che non è altro che una funzione sentimentale e inutile che produce una psicologia inutile è pericolosa che si erige a profilassi e caldeggiamento della violenza.

    A fronte di una contemporaneità (vedi recenti eventi delittuosi) che chiede “senza indugio” in modo strambo e pericoloso alla psichiatria di esercitare una chirurgia estetica del Negativo, invocando una prevenzione assoluta della violenza l’unica risposta è dare voce alla competenza, unico antidoto verso i nemici della conoscenza.

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  6. Il tema sollevato è molto interessante e faccio tre considerazioni.
    1) Che senso ha una misura di sicurezza detentiva dopo 15 anni di pena? Si tratta di un residuo del codice Rocco e di una lettura della misura di sicurezza come ulteriore custodia in OPG in nome della “pericolosità sociale” che a quel punto potrà continuare, con limitate garanzie… sine die.
    In questa logica la questione della cura è del tutto secondaria. E’ un residuato custodiale che andrebbe abolito. D’altra parte la stessa Corte Costituzionale per l’infermità mentale sopraggiunta durante la detenzione, con la sentenza 99/2019, esclude che si possa fare il trasferimento in REMS, ma prevede la concessione di misure alternative anche in deroga. Nel caso specifico vi sono stati 15 anni per capire e curare la persona alla quale viene applicato il doppio binario, saltando dall’uno (la pena) all’altro (misura di sicurezza). Va affermato il diritto al giudizio, con l’imputabilità, superando il doppio binario e garantendo, in ogni fase le cure necessarie.
    2) la questione della trattabilità e di chi decide sulle questioni sanitarie? Resto convinto fermamente che sui temi sanitari la parola spetti solo ai medici psichiatri e non ad altri, giudici compresi. Fare diagnosi e dove effettuare i trattamenti è una competenza medica, così ammissione e dimissione. La cura si può fare solo con il consenso e il TSO è solo una fase temporanea ed eccezionale, per il suo raggiungimento.
    Serve una condivisione di vedute tra clinici e periti.
    Occorre che la giustizia faccia la propria parte instaurando una “sua” relazione autonoma, ponendo i limiti e le prescrizioni che ritiene. Per questo occorre un “doppio patto” uno per la cura (possibile) e l’altro per la prevenzione di nuovi reati, E’ l’appiattirsi della misura di sicurezza sulla cura, fino a schiacciarla e renderla impraticabile che dobbiamo rifiutare. E su questo anche le REMS vanno superate, in favore di altri servizi di comunità.
    3) In merito alla trattabilità tutta la medicina ha a che fare con non compliance, resistenze, casi non responder e ad esito infausto. La psichiatrica dovrebbe fare eccezione? Poi come la medicina ha sviluppato le cure palliative, forme di aiuto psicosociale possono essere di attivate anche ai soggetti psicopatici e con “narcisismo maligno” che sono giuridicamente imputabili (quindi punibili) e da seguire in istituti di pena con interventi psicologici, sociali, lavorativi, formativi, di sostegno. Cosa si possa fare per cercare di curarli, o meglio di prendersene cura nel territorio possiamo dirlo, caso per caso. Facciano lo stesso la giustizia, le forze dell’ordine, i servizi sociali, ciascuno per la propria parte riconoscendo a tutti la difficoltà del compito, ma senza deleghe alla psichiatria, o ancora senza imposizioni di percorsi impossibili. E’ questo mandato che non può essere accolto.

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  7. Grazie Pietro per la lucida opinione.
    Abbiamo bisogno di persone competenti che ricoprono posizioni di responsabilità e che consentono agli amministratori e ai politici che rappresentano il popolo di approfondire temi importanti e controversi come quelli trattati.
    Mi piacerebbe che altri direttori di dipartimento del comitato scientifico e editoriale si esprimessero con chiarezza.
    Sarebbe utile per tutti spendere 10 minuti per scrivere un pensiero che consenta un confronto.
    Si dibatte anche sulla contenzione in SPDC…

    Rispondi
  8. Cari tutti
    Non puó che crearsi un dibattito di fronte a una psichiatria, che per anni abbiamo tentato di far assurgere a scienza medica, riuscendoci in parte, e che dalla chiusura degli OPG in poi sta tornando ad essere considerata scienza del controllo sociale. A poco purtroppo sono serviti in questi anni gli sforzi di destigmatizzare la nostra disciplina, e anche nella cultura piú educata ancora oggi appare naturale che degli psicopatici se ne occupino gli psichiatri come sciamani onnipotenti.
    Come psichiatri non rifuggiamo certo le situazioni complesse, ma dobbiamo mettere dei limiti al nostro operare e alle nostre competenze, ed esigere che nessuno, per incompetenze amministrative, per incompetenze scientifiche o peggio per ideologie cerchiobottiste alla base di perizie risibili, ci lasci col cerino in mano senza strumenti di lavoro reali.
    Depsichiatrizzare gli autori di reato deve essere il nostro mantra per i prossimi anni, cosi come eliminare l’assurdo concetto della semi-infermitá mentale alla base dell articolo 89 del cp, per il quale per fortuna esiste una proposta di legge di modifica in parlamento.
    I Dipartimenti di Salute Mentale e le loro articolazioni assistenziali non possono e non devono diventare i luoghi della gestione degli autori di reato a scapito del nostro ruolo terapeutico con i pazienti reali.

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  9. Ho letto l’opinione di Giovanni Giusto che merita qualche riflessione e soprattutto una sistematizzazione. La proposta di superamento della non imputabilità che ho proposto tanti anni fa e che la Società della Ragione ha perfezionato e adeguata alla chiusura degli Opg, renderebbe più semplici le cose. Dopo il giudizio, il soggetto autore di un reato avrebbe la possibilità di uscire dal carcere sulla base di un progetto individuale nella struttura per lui più adatta. Certo, alcuni potrebbero rimanere in carcere e qui si pone il problema di dare un senso alla detenzione e alla presenza del Dipartimento di salute mentale.
    Nella scorsa legislatura era stata presentata alla Camera dei deputati dall’On. Riccardo Magi di +Europa. Sarà ripresentata, mi auguro venga sottoscritta da più parlamentari e che si organizzino presentazioni in molte città per suscitare una discussione e un confronto.
    La provocazione di Giusto mette tutti di fronte a realtà difficili o addirittura impossibili e dev’essere letta come una spinta a un’ulteriore riforma. Occorre evitare il rischio che chi ha nostalgia del manicomio potrebbe offrire come soluzione la cronicizzazione per le persone giudicate incurabili, in un luogo di internamento e di istituzionalizzazione totale.
    Si può immaginare una lungodegenza in una struttura che salvaguardi la dignità della persona e che non sia un contenitore di vuoti a perdere?

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  10. Complicato ma non eludibile il discorso sulla trattabilità: non va bene che la collettività impegni risorse tecniche in compiti impossibili, destinati a vanificarle. Superfluo aggiungere che la valutazione deve essere dinamica e periodicamente verificata, anche se nessuno ritiene si possano commettere errori paralleli a quelli del passato, quando ad esempio si riteneva inevitabile l’esito infausto della “demenza precoce”.
    Concordo con chi ritiene che in quell’acting che sono non poche forme di delinquenza si tenda a realizzare un vissuto di onnipotenza, sotto la spinta di quella esigenza narcisistica “maligna” di cui ci ha parlato Kernberg. Si può pensare che i soggetti di cui egli tratta in ottica psicanalitica siano fondamentalmente gli stessi che Kurt Schneider, con approccio clinico – descrittivo, chiamava “psicopatici freddi”. Sicuramente li unisce la sostanziale indifferenza ai bisogni e alle sofferenze dell’Altro, la carenza di quella empatia che è base fondamentale dell’etica (al di là di quelle esigenze di opportunità di cui parlava il Rousseau di “contract social”).
    Certamente pazienti di questo tipo hanno pesanti limiti di trattabilità, anche perchè accettare un aiuto può significare per loro un passare dall’esser temuti al fare compassione: ferita narcisistica intollerabile (ovviamente, ciò non riguarda le simulazioni di malattia mentale, poichè chi simula può anche ritenersi particolarmente furbo). Tuttavia, credo da evitare distinzioni a colpo d’ascia fra chi è trattabile e chi no, e si debba invece tener conto di tante sfumature, di diverse gradazioni di trattabilità, di diverse indicazioni di trattamento.
    Tutto ciò dà ulteriore fiato alla proposta Corleone, che avrebbe già il merito di esentare lo psichiatra dal compito, estraneo alla cura, di dichiarare se una persona “merita la punizione” oppure no. Infatti, se alla condanna penale seguisse l’indicazione del tipo di trattamento terapeutico da applicare (o del non-trattamento) essa dovrebbe prevedere interventi commisurati al caso (a cura del Servizio? di un Perito?). Tuttavia, c’è da chiedersi quanto ciò sarebbe in pratica attuabile, poichè richiederebbe il predisporre un più differenziato spettro di interventi, relazionali di tipo individuale o gruppale, farmacologici, sociali, assistenziali. Non so quanto ciò sia realizzabile, naturalmente conservando il necessario e complesso rapporto fra Struttura, Servizio, Territorio.

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  11. Vorrei fare alcune considerazioni sul tema, a costo che appaiano come una eccessiva semplificazione, tuttavia supportata dagli ormai quasi 100 casi di pazienti in misura di sicurezza di cui ci occupiamo nel nostro dipartimento.
    Rispetto alla difficoltà di trattamento di alcuni “pazienti” (?) mi domando se iniziassimo a valutare quanti di questi sono cosiddette doppie diagnosi? sia per quanto riguarda l’abuso di sostanze psicotrope che la disabilità intellettiva e che numeri troveremmo (soprattutto per la prima delle 2) all’interno dei cosiddetti casi difficili?
    Se poi considerassimo le diagnosi di disturbi della personalità (peraltro spesso associate all’uso di sostanze)?
    A mio modo di vedere si tratta in gran parte di un problema di appropriatezza dei pazienti inseriti nel sistema misure di sicurezza.
    Senza gettare la croce addosso a nessuno penso che i periti abbiano un ruolo chiave in questo, ma ritengo il nostro sistema sia corresponsabile nel momento in cui inizia a trattare con ricoveri ospedalieri (SPDC) o prese in carico territoriali soggetti e ad appiccicare diagnosi che si reggono a stento su qualche aspecifico sintomo, consegnando al sistema Giustizia ed al perito storie psichiatriche che sulla carta esistono e difficilmente possono essere ignorate.
    Banalmente tutti sappiamo che
    per i soggetti utilizzatori di sostanze sia rodato e ben collaudato il.sistema delle misure alternative alla detenzione,(309/90) perché non riportare, a mio giudizio, in maniera più appropriata questa parte di pazienti su quel percorso anziché storpiare e stiracchiare le.misure di sicurezza per questa utenza con tutte le problematiche che conosciamo, prima fra tutte il problema della bassa compliance ai percorsi ed alla successiva unica statica possibilità di cambiare le cose con fantomatici aggravamenti della misura (quali ingressi o reingressi i REMS)

    Rispondi
  12. Grazie a Roberto
    Concreto e pratico.
    Tradurre in realtà significa affermare il primato della cura appropriata per tipo di bisogno.
    Ultimamente mi sono trovato ad affrontare il problema delle persone affette da cerebropatia neo perinatale con tendenza alla violenza alcuni dei quali sono impropriamente ricoverati da anni (sic!) in SPDC , spesso contenuti fisicamente.
    Da chi devono arrivare le proposte operative se non da noi?
    Siamo in grado di non essere subalterni agli psicoburocrati?
    Che margine operativo pensiamo di avere se non pretendiamo di avere strumenti adeguati (come ambiente e come tecniche) per intervenire terapeuticamente?
    Quale chirurgo accetterebbe di operare senza un’adeguata attrezzatura o in un ambiente insalubre?

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  13. Condivido la visione del dr Carrozzino.
    La Rems rischia di diventare il ricettacolo di contraddizioni e situazioni cliniche che hanno dell’immodificabile.
    Sia per quanto riguarda certi disturbi di personalità e della condotta, sia per coloro che soffrono di un deficit cognitivo di base.
    Non è solo il fatto di aver commesso un reato che si debbano aprire per tutti le porte della Rems.
    Lo vivo quotidianamente il divario, il limite del gruppo di lavoro, di fronte a coloro che non hanno possibilità e capacità di cambiare.
    A volte, in momenti di tensione e sconforto mi chiedo cosa significhi questo posto, che funzione ha.
    Poi penso alle dimissioni, importanti, che abbiamo fatto, alla sempre più consapevole ed onesta collaborazione con i Magistrati e vedo che per alcuni pazienti la Rems assume una dimensione veramente terapeutica.
    Credo che la strada sia ancora lunga per formulare una risposta a queste contraddizioni.
    Ma il dibattito è aperto ed è soprattutto compresa la difficoltà che ci aspetta ogni giorno dietro a quel cancello.

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