Questo weekend appena trascorso mi sollecita come ogni anno alla riflessione sul senso della morte e sulla sua simbolizzazione.
Che si tratti della notte di Halloween, del Día de los Muertos messicano o del Giorno dei Morti italiano, in ognuna di queste ricorrenze si manifesta un bisogno comune: trasformare la perdita in memoria, e la paura in significato.
Halloween: la notte dell’inconscio collettivo
Halloween affonda le sue radici nel Samhain celtico, la festa che segnava il confine tra estate e inverno, tra vita e morte. Era considerato un tempo “poroso”, in cui il velo che separa i mondi si assottiglia. Nell’immaginario contemporaneo, la sua dimensione spirituale si è in gran parte dissolta, ma il rituale del travestimento conserva un valore psicologico profondo: affrontare simbolicamente ciò che spaventa.
Secondo la psicologia analitica di Jung, le maschere di Halloween rappresentano un modo per dare forma all’Ombra — quella parte di noi che contiene paure, impulsi e angosce legate all’ignoto. Indossare una maschera è un gesto catartico: ciò che è nascosto viene esposto, ciò che è rimosso trova spazio nel gioco. In questo senso, Halloween diventa una rappresentazione collettiva del rapporto con la morte, un rituale che permette di convivere con la paura attraverso l’ironia, la comunità e la creatività. In questo senso possiamo leggere la pubblicità della festa di Halloween non solo a puro scopo merceologico ma anche attraverso un movimento comunitario e unificante.
Il Día de los Muertos: la memoria come continuità
Nel Día de los Muertos messicano, invece, la morte non è oggetto di paura, ma di dialogo. Le famiglie costruiscono ofrendas — altari domestici con fotografie, fiori, cibo e candele — per accogliere simbolicamente le anime dei defunti. L’atmosfera è festosa, colorata, musicale: si canta, si danza, si ride. La morte viene integrata nella vita quotidiana, non come assenza, ma come presenza trasformata.
Dal punto di vista psicologico, questa prospettiva corrisponde a quella che la psicoanalista britannica Melanie Klein descrive come “riparazione”: il gesto di ricostruire internamente il legame con l’oggetto perduto. Ricordare, nutrire, celebrare: azioni che ricompongono la frattura del lutto e consentono di trasformare il dolore in gratitudine. Il Día de los Muertos insegna che ricordare non significa trattenere, ma riconoscere: accettare che la perdita non cancella il legame, ma lo rende eterno.
Il Giorno dei Morti in Italia: il silenzio come linguaggio
Il 2 novembre, in Italia, la commemorazione dei defunti si esprime in toni più raccolti. Le famiglie visitano i cimiteri, portano fiori e accendono lumini. È un rituale sobrio, intriso di rispetto e nostalgia. Ma anche questo silenzio è un linguaggio: quello dell’intimità, del contatto interiore con chi non c’è più.
Il gesto di portare un fiore o di accendere una candela è un atto di continuità simbolica. Come ha evidenziato Donald Winnicott, gli oggetti transizionali e i rituali servono a mantenere vivo il legame con l’altro nella dimensione dell’assenza fisica. Il cimitero diventa così uno “spazio transizionale” — un luogo tra realtà e immaginazione — dove la mente può collocare il ricordo senza esserne sopraffatta.
La funzione psicologica dei riti della morte
In ogni cultura, i rituali funebri e commemorativi svolgono una funzione di regolazione emotiva. Dal punto di vista psichiatrico, essi rappresentano un dispositivo di elaborazione collettiva del lutto. Il rituale — come scriveva Sigmund Freud nel Lutto e melanconia — consente di spostare l’energia psichica legata all’oggetto perduto, trasformando l’angoscia in memoria e la tristezza in simbolo.
Nelle società contemporanee, dove la morte tende a essere rimossa o medicalizzata, queste feste annuali rappresentano uno dei pochi momenti in cui la dimensione del morire torna ad essere condivisa e socialmente riconosciuta. Esse offrono una cornice in cui è possibile ricordare senza disperarsi, riconoscere la perdita senza esserne annientati.
Tre culture, una stessa necessità
Nonostante le differenze, Halloween, il Día de los Muertos e il Giorno dei Morti italiano rispondono a un’esigenza universale: dare forma al dolore, per renderlo pensabile. In tutte queste feste si ritrova la stessa funzione psichica della memoria: integrare la morte nella vita, conservare il legame affettivo attraverso il simbolo.
Che si tratti di una maschera, di un altare o di una candela, ogni gesto rituale diventa un atto terapeutico collettivo. Rendere visibile la morte — con ironia, con luce o con silenzio — non significa celebrare la fine, ma riconoscere la continuità. E forse, come ricordava Jung, “la vita non ha senso se non è vista come preparazione alla morte”: non per morire, ma per imparare a vivere con ciò che finisce.



